Parte seconda - L’organizzazione postale

Fino al Settecento la struttura operativa delle Poste era alquanto limitata, sia per lo scarso numero di uffici esistenti — praticamente solo nei centri di una certa importanza esisteva un ufficio postale, e uno solo persino in molte capitali — sia perché le rotte postali si snodavano solo sulle principali direttrici di traffico e i mezzi di trasporto disponibili erano pochi, soprattutto a causa della cattiva pavimentazione stradale.

Dall’Ottocento, con le possibilità offerte dal progresso tecnico e dalle crescenti esigenze di comunicazione dovute al graduale miglioramento delle condizioni sociali, l’organizzazione postale si fece sempre più ampia e articolata, sia come struttura operativa sia come mezzi e sistemi di raccolta, trasporto e recapito. Se tradizionalmente l’Amministrazione postale era solo una branca del Ministero dei Lavori pubblici, anche se largamente autonoma sotto la guida di un Direttore generale, alla fine se ne staccò, proprio per la sua crescente importanza: in Italia è dal marzo 1889 che esiste il Ministero delle Poste e dei Telegrafi, giunto fino a noi anche se con nomi diversi nel tempo. Un Ministero che per quasi un secolo fu dei meno ambiti, finchè negli anni ’70 qualcuno non si rese conto delle grandi possibilità che offriva a livello di assunzioni; e infatti tutti coloro che da quel momento lo ressero fecero una rapida e notevole carriera politica. Poco importa se a scapito della logica e dell’economia, con faraonici palazzi romani stracolmi di dirigenti dalle qualifiche spesso incomprensibili, e certi paesini, specie nel centro-sud, serviti da un numero spropositato di portalettere!

Dal 2001 infine, dopo un decennio di ridefinizione più che altro transitoria in Ente pubblico, l’Amministrazione postale è stata privatizzata, divenendo Società per Azioni (anche se il suo capitale è detenuto per il 65% dallo Stato italiano e per il 35% dalla Cassa depositi e prestiti, a sua volta per il 70% di proprietà dello Stato) col nome di Poste Italiana SpA. E il Ministero delle Comunicazioni, rimasto nel frattempo a gestire settori più ristretti – anche se di attualità come la televisione – mantenendo sulla posta solo un controllo oltre alle decisioni sulle carte-valori, nel 2008 è stato infine accorpato al Ministero dell’Attività produttiva, come previsto sin dal 1999: quasi un ritorno ai tempi in cui le poste dipendevano dai Lavori pubblici.

Come l’esercito e la chiesa, anche le Poste avevano fino a metà Novecento le proprie divise particolari, con modelli, ornati, cifre e distintivi diversi per ciascun grado: questa era riservata ai Direttori compartimentali (1861-1870). Agli inizi del Regno la divisa dei portalettere era una “tunica di panno turchino a un petto, venata di scarlatto con colletto ornato di gallone in argento, chiusa con bottoni inargentati aventi la impronta Regie Poste; pantaloni di panno bigio per l’inverno e di tela greggia per l’estate; pellegrina di panno turchino con cappuccio; berretto di panno turchino con venatura rossa e collo stemma Reale in argento; cravatta nera”; era fornita dall’Amministrazione ma doveva essere rimborsata “in 24 rate, mediante rilascio mensile sullo stipendio”-

Il personale postale

Ogni innovazione porta con sé dei nuovi mestieri, che sovente scompaiono quando il progresso introduce altre novità. Le poste non fanno eccezione a questa regola. Fra il Settecento e l’Ottocento, ad esempio, quando le corrispondenze viaggiavano in gran parte in porto assegnato, esistevano i tassatori, cioè degli impiegati postali specializzati che nelle grandi città avevano l’esclusiva incombenza di segnare sulle lettere le tasse dovute dai destinatari. E postiglioni, corrieri, procacci e staffette nel corso dello stesso Ottocento pian piano dovettero cambiare mestiere o specializzarsi con l’entrata in scena dei nuovi mezzi di comunicazione come la ferrovia, che richiedeva capilinea, messaggeri e scambisti postali per i nuovi uffici postali ambulanti su ruote.

Ogni ufficio postale aveva un direttore e, se di una certa importanza, diversi impiegati, serventi e portalettere. Negli uffici minori invece vi era solo un distributore. Per lungo tempo i titolari di uffici e distribuzioni avevano a loro carico tutte le spese, dall’affitto della sede alla paga dell’eventuale sostituto quando era malato. In cambio negli uffici minori è rimasta a lungo (fino a metà Novecento) la regola dell’ereditarietà dell’incarico.

Con l’aumento del traffico postale e l’ampliarsi del tariffario e del personale si sono resi necessari sempre maggiori controlli, ragion d’essere di ispettori e brigadieri, poi dell’Escopost, la polizia postale, e da ultimo persino di una speciale sezione che a Roma Ferrovia passa ai raggi X tutta la posta diretta alle massime autorità dello Stato, alle Camere e alle ambasciate a rischio di attentati. Una figura particolare è quella del verificatore, creata a fine Ottocento per il controllo delle affrancature, delle bollature e di eventuali frodi: la sua opera è rivolta soprattutto a vigilare su stampe e oggetti a tariffa ridotta perché non contengano corrispondenza, e sull’opera degli addetti postali, per rilevarne eventuali errori.

Negli ultimi due secoli quello postale è stato un vero esercito, inizialmente piccolo ma sempre agguerrito e molto motivato: dalla consapevolezza che il suo lavoro era indispensabile per la società e i commerci, dall’orgoglio di appartenere a una branca dell’amministrazione pubblica fra le più attive e acculturate. Per appartenere alla quale occorreva una buona istruzione, superare degli esami, e pagare persino una cauzione. Un lavoro tanto ambito che agli inizi del Regno esistevano persino i volontari, ovvero “impiegati apprendisti non retribuiti” che dovevano avere fra i 15 e i 25 anni, “aver fatto un corso regolare di studi almeno fino alla rettorica”, sostenere un esame, dimostrare di “poter giustificare i mezzi del proprio decente mantenimento durante il volontariato, ed essere in grado di prestare la cauzione”. Gente insomma che lavorava gratis e anzi pagava per fare pratica e un giorno essere magari assunta.

 

Un cartoncino d’auguri del Direttore generale delle Poste risalente al 1886, quando non erano ancora un Ministero. Molto interessanti le notizie statistiche al retro, tra cui il numero ancora esiguo delll’amministrazione centrale, solo 775.
Nel corso dell’ultimo secolo e mezzo praticamente ogni operatore postale ha avuto un bollo postale che lo individua, direttamente o come sezione.
Sino a fine Ottocento gli uffici di posta, anche quelli importanti, erano improntati alla massima austerità: angusti, disadorni e sovente senza neppure un banco su cui poter scrivere. Solo dopo la costituzione del Ministero si cominciò ad arredare gli uffici “per il comodo del pubblico”, e nei capoluoghi si edificarono Palazzi delle Poste più adeguati all’importanza e alle necessità del servizio, spesso con saloni interni imponenti e affrescati. Di questa “architettura postale”, oggi oggetto di studi e mostre, è un classico esempio il lussuoso padiglione approntato per l’Esposizione internazionale di Torino del 1911, in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia.

 

Gli uffici di posta

Una delle prime importanti leggi approvate dal nuovo Regno d’Italia, dopo lunga e dibattuta discussione parlamentare, fu quella “sulla riforma postale” firmata da Vittorio Emanuele II il 5 maggio 1862, che fissava la privativa dello Stato sul servizio e all’art. 3 ne stabiliva l’estensione “entro l’anno 1873 a tutti i Comuni del Regno” (in realtà ci si arrivò solo più di 10 anni dopo!), dando la preferenza a quelli che concorrevano alle spese necessarie. Sin da allora perché in una località venga istituito un ufficio di posta occorre infatti che sia in grado di garantire un minimo di introito postale, tale da giustificare le spese per il personale, l’affitto ecc.: è la cosiddetta rendita, oggetto di costanti controlli e di statistiche sul numero annuale di lettere, raccomandate, vaglia e loro importo in ciascun “stabilimento postale”, come si diceva nell’Ottocento.

A loro volta gli uffici sono suddivisi in diverse classi a seconda dell’importanza e del servizio offerto al pubblico. Nelle località maggiori gli uffici possono essere più d’uno: oltre alla Direzione (ora Filiale) o all’ufficio principale, solitamente dotati di sportelli diversificati per i vari servizi, vengono istituiti uffici succursali nei vari rioni cittadini o nelle frazioni. A partire dal 1871 vengono inoltre aperti uffici temporanei (o distaccati) per uno o più giorni presso enti fieristici, sedi di mostre, stadi ecc. in occasione di manifestazioni importanti, per consentire ai presenti — soprattutto gli espositori — di comunicare con l’esterno e ricevere o depositare denaro.

L’orario di apertura degli uffici un tempo era più lunga, e adeguata alle necessità locali. Nell’Ottocento gli uffici non chiudevano neppure la domenica e nelle grandi festività come il Capodanno, Pasqua e Natale (ma allora era la norma in quasi tutti i lavori), e fino al 1945 il servizio di recapito veniva svolto anche la domenica mattina.

 

Un tempo la posta era attiva anche a Natale, come mostrano i bolli di questa lettera impostata nel dicembre 1861 a Macerata Feltria, anche se personale e trasporti dovevano essere a ranghi ridotti visto che ci vollero due giorni per arrivare a Sigillo.
Una cartolina illustrata che vale più di tante parole per mostrare l’importanza degli uffici di posta nella vita d’un tempo. Qualcuno, negli anni ‘30, fra le immagini di Rivarolo Ligure tanto degne di nota da essere riprodotta in cartolina include anche un primo piano del locale e alquanto modesto Ufficio Postale Telegrafico e Telefonico, illeggiadrito per l’occasione con la bandiera!
Un altro esempio dell’importanza della posta negli ultimi due secoli: l’apertura dei nuovi uffici postali appena possibile. E se i bolli ufficiali non erano ancora arrivati ci si arrangiava: a metà Ottocento con penna e calamaio, creando anche i cosiddetti “annulli grafici”, nel Novecento con timbri in gomma o in legno di fattura artigianale.

 

Gli uffici postali viaggianti

L’idea di montare un ufficio postale su ruote o a bordo di un battello risale ai primi piroscafi e alle prime ferrovie, ed era indubbiamente intelligente, consentendo di prendere due piccioni con una classica fava. Durante le soste, oltre a ritirare i dispacci preparati dall’ufficio del luogo, l’ufficio ambulante o natante era anche a disposizione del pubblico per l’accettazione di lettere e plichi, mentre durante il viaggio si occupava della lavorazione delle corrispondenze, che così potevano essere consegnate alle varie fermate anche per l’ulteriore prosecuzione, con notevole risparmio di tempo. Su ferrovie e navi potevano essere attivati anche piccoli uffici mobili detti messaggerie, talvolta formati da un solo addetto; inizialmente si limitavano al trasporto dei dispacci, poi svolsero mansioni simili a quelle di ambulanti e natanti su linee secondarie o per servire centri minori non dotati di ufficio. Tutti questi uffici sono stati soppressi in Italia poco prima della privatizzazione delle poste.

Uffici postali speciali sono stati attrezzati anche su autovetture: in Svizzera dal 1937 vennero persino dotati di un francobollo, una cartolina e un bollo personalizzati. Questi autoambulanti si sono dimostrati utili soprattutto in casi particolari, consentendo di portare i servizi postali anche in zone sperdute oppure disastrate da terremoti e altre calamità, in località affollate di turisti solo per qualche mese all’anno, e in punti inadatti all’apertura di un normale ufficio distaccato (ad esempio in Piazza San Pietro durante l’Anno santo 1950).

L’interno di un ufficio ambulante ferroviario a fine Ottocento. Il loro impiego fu di primaria importanza per oltre un secolo, finché non vennero abbandonati, sul finire del Novecento. Per loro furono espressamente creati i suggelli gommati per la chiusura dei dispacci, per evitare l’uso della ceralacca e i conseguenti rischi dovuti al fuoco del fornello.
Poiché gli uffici viaggianti erano di norma distinti con i nomi delle località capolinea, i loro bolli datari non consentivano di risalire con precisione alla località in cui era stata imbucata la corrispondenza. Per questo fu inizialmente previsto che ambulanti e natanti apponessero sempre anche uno dei vari bolli lineari di cui erano provvisti, ciascuno col nome di una delle stazioni toccate. Il che voleva dire, dopo l’introduzione degli annulli a numero, che questi uffici dovevano apporre tre bolli diversi su ogni corrispondenza; nessuna meraviglia se il lineare veniva quasi sempre dimenticato!
Quando i messaggeri, operanti sulle linee minori e sui treni “accelerati”, ricevettero anche la mansione di “lavorare” le corrispondenze ricevute alle varie fermate, e per questo venne loro fornito un bollo speciale contenente tutte le indicazioni mobili: oltre alla data, la localitò di prelevamento della posta e il numero del treno, o della corsa per i natanti. Per non impazzire, anche molti messaggeri collettori si dimenticavano sovente di cambiare la località, lasciando lo spazio vuoto. Finchè dopo qualche anno non venne loro dato un bollo come quello degli ambulanti ma con la dicitura MESSAGGERE o MESS. oppure nessuna specifica.

 

Servizi rurali e collettorie

Le comunità sprovviste di ufficio a causa del troppo scarso traffico postale un tempo si organizzavano in proprio per andare a portare e prendere la posta all’ufficio più vicino, a mezzo di un proprio addetto sovente definito cancelliere. Il Regno di Sardegna e poi quello d’Italia, che invece miravano a gestire direttamente il servizio, promossero la creazione di portalettere rurali o poi dei collettori, dipendenti dell’ufficio postale seppure in gran parte stipendiati dalla o dalle comunità che servivano. In seguito anche le collettorie furono elevate a ufficio, seppure al gradino più basso nella scala gerarchica e con diversi limiti nei servizi a cui erano abilitati e nelle somme gestite nei servizi a denaro.

 

Inizialmente le collettorie non ebbero alcun bollo, come specificano le norme istitutive; erano gli uffici postali che, come nel caso degli uffici ambulanti, dovevano apporre sulle corrispondenze anche un bollo indicante la località esatta di provenienza, per facilitare l’eventuale restituzione al mittente, che allora per ragioni di riservatezza nessuno indicava sulle soprascritte. L’ufficio postale di Modena doveva avere un servente che si occupava della cosa, apponendo questi timbri d’origine in rosso o talvolta in verde, ma era un’eccezione; la gran parte degli uffici se ne dimenticava quasi sempre, specie dopo l’introduzione degli annulli a numero. Finché nel 1871 non si decise di affidare questi bolli direttamente al collettore.

 

Agenzie postali e recapiti

II coinvolgimento dei privati nella gestione di particolari uffici postali e telegrafici è stato operato più volte in passato, soprattutto per quanto riguarda alberghi, fabbriche e ditte con notevole traffico postale. In questi casi il costo dei locali e del personale era a carico del richiedente, in cambio di una percentuale sugli introiti, mentre alle Poste spettava fornire i bolli e il materiale necessario al servizio.

II primo esperimento iniziò il 25 settembre 1894 a Milano con l’agenzia postale aperta presso l’Unione Cooperativa, nelle vicinanze della Galleria, e dal 1896 fu ammessa l’apertura di agenzie “nei comuni in cui il reddito postale e telegrafico risulti in un triennio superiore alla media annua di lire centomila”. Il successo di pubblico fu notevole soprattutto perché le 40 agenzie aperte a Brescia, Firenze, Milano, Roma, Torino e Verona, sovente sistemate presso negozi e uffici, offrivano comodità e spazi che gli uffici postali dell’epoca neppure si sognavano. Ma per le Poste l’onere finanziario risultò esorbitante oltre che ingiustificato, visto che sottraevano soltanto incassi ai normali uffici, e a fine giugno 1899 furono soppresse. In compenso gli uffici si ampliarono e si diffuse sempre più la costruzione di palazzi postali di prestigio. Finché nel 1923 non fu riammessa l’apertura di uffici postali, telegrafici o telefonici affidati a privati, sia a provvigione sia — nel caso di uffici interni ad alberghi, stabilimenti e luoghi di cura — a totale carico dei concessionari. Queste nuove agenzie, poco meno di 300, operarono fino al 1952, quando quelle a titolo oneroso furono soppresse e le altre assunsero il nome di recapiti.

 

Come d’abitudine nell’Ottocento, anche per le agenzie si stabilì di adottare un timbro distintivo, prima un doppio cerchio con bandella, come questo dei Grandi magazzini Mele di Napoli, poi di forma esagonale, in cui inizialmente figurava il nome dell’azienda che gestiva l’agenzia.

 

Gli alberghi rappresentano un caso particolare, data la loro esigenza di offrire agli ospiti quelli che fino a metè Novecento erano in pratica gli unici servizi di comunicazione disponibili a tutti, anche per l’estero. Se i grandi alberghi di città dovettero attendere il 1925 per aprire un proprio ufficio postale interno, con tanto di bollo che serviva anche come pubblicità, quelli situati in sperdute località solitamente montane ci erano riusciti già prima, ottenendo l’istituzione di una collettoria o anche di un vero ufficio postale, anche se talvolta aperti solo durante la stagione.

 

Tutti i mezzi disponibili

I battelli mercantili hanno sempre trasportato lettere, fin dal Medioevo affidate di solito al comandante contro una piccola ricompensa e con la raccomandazione Che Dio Salvi o Che Dio Guidi sulla soprascritta, spesso ridotto all’acronimo CDS o CDG). Dall’Ottocento il trasporto delle corrispondenze è diventato anche per loro un obbligo, ed è invalso l’uso per le Poste di stipulare convenzioni con le varie compagnie di navigazione, per garantire un servizio più regolare e in molti casi per stimolare, attraverso sostanziose sovvenzioni, la creazione di linee soprattutto sui percorsi meno serviti o sulle tratte internazionalmente più seguite. Lo stesso sistema di convenzioni/sovvenzioni è stato in seguito utilizzato anche per le linee ferroviarie, dal 1865 tutte in mano ai privati, e poi con le compagnie aeree.

 

Era definito molto semplicemente “il postale” il piroscafo sovvenzionato dalle Poste, che esponeva sul pennone anche l’apposita bandiera postale, triangolare e con una P nella fascia verde del tricolore, tuttora prevista dalla normativa anche se dal 1946 senza più la croce sabauda al centro.

 

Anche gli “agenti delle strade ferrate” erano tenuti al trasporto dei dispacci postali e anche di eventuali corrispondenze, su cui talvolta applicavano i loro caratteristici bolli “a compostore”, con località, data e numero del treno, creati per le bolle di accompagnamento merci. Solo dal 1932, a seguito di accordi con le Ferrovie dello Stato, l’uso di questi bolli divenne regolare per bollare corrispondenze affidate al personale ferroviario.

 

Gli uffici all’estero

Tra i modi escogitati per risolvere i problemi postali con l’estero il più antico è quello dello stabilimento di propri uffici in altri Paesi, solitamente collegati con piroscafi nazionali in modo da garantirsi anche da occhi estranei. A partire dall’Ottocento questi uffici in terra straniera ebbero origine soprattutto per ragioni commerciali, per sopperire ai servizi locali inesistenti o poco affidabili, o di prestigio, come fu per l’Italia nel 1908, per mostrare al mondo di essere una potenza economica e militare. Uffici italiani funzionarono a lungo in Tunisia, in Egitto e in Albania; uno fu aperto a La Canea, a seguito della missione navale a Creta che aveva visto l’ammiraglio Canevaro a capo di una flotta multinazionale di pace, e in seguito due addirittura in Cina, a Pechino e a Tientsin, come premio per la partecipazione all’intervento per sedare la rivolta dei boxer. Nel 1908 fu persino messa in moto la flotta per imporre al Sultano turco l’apertura di uffici italiani a Costantinopoli, Salonicco, Smirne e Gerusalemme, allora tutte entro i confini dell’Impero Ottomano.

Di tutt’altra natura erano invece gli uffici italiani in Paesi limitrofi — ad esempio a Modane e a Chiasso — utilizzati soprattutto come capilinea degli uffici ambulanti italiani che facevano servizio con l’estero. Anche le poste svizzere ebbero dal 1849 delle agenzie postali in Italia, in appoggio al servizio prima delle diligenze e poi delle ferrovie sulle varie linee — del Sempione, del Gottardo, dello Spluga, del Bernina, del Maloja e della Valtellina — che univano i due Paesi. Le agenzie svizzere di Luino e di Domodossola erano veri uffici di scambio fra le Poste elvetiche, quelle italiane e le ferrovie, per la consegna e ricezione di dispacci e pacchi. L’ultima a essere chiusa fu quella di Domodossola, il 30 settembre 1991.

Oggi invece è la liberalizzazione dei mercati a far varcare le frontiere. Da oltre una decina d’anni le Poste svizzere sono attive in Italia, seguite più di recente da La Poste francese. E accade sempre più spesso di vedersi recapitare riviste austriache spedite dalla Svizzera o pubblicità britannica inviata dal Belgio, cosa che un tempo avveniva soltanto nel caso di scioperi postali prolungati.

Una lettera da Costantinopoli inoltrata nel marzo 1922 tramite l’ufficio postale italiano, riaperto poco dopo la fine della Grande guerra. Interessante il bollo in francese per evitare controversie sulla soprastampa in piastre dei francobolli, applicato anche su una lettera diretta in Italia.

La posta militare

Nessuno più di un esercito in territorio straniero ha bisogno del servizio postale per tenere i contatti con il proprio Paese. E questo era tanto più vero un tempo, quando anche il telegrafo ottico era ancora da inventare. Ecco perché la posta militare è stata una delle prime strutture postali a essere organizzata in forma moderna e innovativa, anzi del tutto autonoma: solo nell’Ottocento venne uniformata con il servizio civile, seppure con una struttura a parte. In cambio, fu proprio per la posta militare che si ebbero i primi esempi di agevolazione tariffaria e furono istituite dai francesi delle speciali réconnaissances che rappresentano un primo sistema di trasmissione virtuale del denaro, precursore dei vaglia postali.

Anche in seguito la posta militare è sempre stata una struttura a sé, un servizio logistico dell’esercito in attività e pertanto dotato di personale e mezzi di trasporto militarizzati. La prima normativa unitaria italiana sul servizio postale militare in caso di guerra risale al dicembre 1913, ma fu completamente rivista già nel maggio 1915, al momento di metterla in pratica. Per la Marina, e specificamente le navi da guerra in acque estere, il servizio era già regolato da un accordo del luglio 1892.

Il corredo di un ufficio di posta militare era predisposto in modo da poter entrare facilmente in funzione anche sotto una comune tenda; il materiale in uso in Italia nelle due guerre mondiali e nelle altre campagne militari era del tipo concordato fin dal 1890 fra il da poco istituito Ministero delle Poste e il Comando del Corpo di Stato Maggiore. Comprendeva cavalletti, casellari, seggiolini e 4 casse trasformabili in scrittoio una volta montate sul cavalletto, contenenti tutto il materiale necessario: bolli e suggelli, inchiostro, bilance, bollatoi e altri generi da scrittoio, forbici, tenaglie, sacche postali, cassette d’impostazione, lanterne da campo, una cornetta in ottone, un’insegna in lamiera con stemma, oltre alla provvista di francobolli, cartoline e biglietti postali, segnatasse e moduli necessari al servizio.

 

Il servizio postale “a parte” della posta militare presenta non pochi esempi caratteristici a partire dalla Grande Guerra: proprie bollature e una modulistica postale a volte particolare, e portalettere militari come questo, recante a tracolla la caratteristica cassetta d’impostazione portatile.

 

Moduli e pubblicazioni

Trattandosi di un servizio dello Stato o posto sotto il controllo dello Stato, la posta è stata sempre soggetta a leggi, regolamenti e istruzioni che ne hanno stabilito fin nei minimi dettagli la struttura, il funzionamento, i servizi, le tariffe, le modalità operative, le carte-valori, la modulistica, le bollature ecc. E i numerosi cambiamenti operati nel corso del tempo, riguardanti sia il servizio interno che quello con l’estero, venivano tempestivamente comunicati a tutti gli uffici con circolari a stampa e telegrafiche, fogli d’ordini, e sin dall’inizio del Regno con una pubblicazione periodica, il Bullettino postale, che è proseguita, pur attraverso molteplici cambiamenti della veste editoriale e persino dell’intestazione, fino alla recente privatizzazione delle Poste. E dal 1864 al 1889 il Parlamento veniva annualmente informato da una Relazione sul servizio postale in Italia,corredata di numerosi dati statistici, curata dal Direttore generale delle Poste.

L’esame di tutto questo materiale rappresenta, insieme agli oggetti salvati dai collezionisti, la più interessante e completa documentazione non solo sulla Posta e sul suo ruolo fondamentale nell’evoluzione sociale ma anche sulla storia degli ultimi secoli, su avvenimenti piccoli e grandi, sulle ideologie, il gusto, la cultura e i tanti altri elementi della vita d’ogni giorno che hanno lasciato la loro impronta in queste normative e in molte espressioni della Posta. L’unico problema è che non sono facili da reperire, specie dopo la “pulizia” inopinatamente effettuata in molte Direzioni postali con il passaggio a Poste Italiane SpA.

 

La Rassegna delle Poste, dei Telegrafi e dei Telefoni, pubblicata dal 1929 al 1943, fu una vera e propria rivista di grande formato che, oltre a leggi, decreti, disposizioni e comunicazioni conteneva articoli e recensioni di carattere postale e varia pubblicità. Dal momento della ricomparsa, nel 1944 nel territorio del Regno, riprese le caratteristiche essenziali e il piccolo formato che aveva sempre avuto il Bollettino postale sin dal gennaio 1861.