Il disservizio nel servizio postale

Qualche giorno fa ho ricevuto un postacelere che recava il timbro di impostazione di una città delle Marche di quattro giorni prima. C’era una domenica di mezzo, è vero, ma è pur sempre una irregolarità se ci riferiamo agli impegni di Poste Italiane.

Alcuni giorni addietro, mi sembra fosse il 3 dicembre, in un simpatico programma televisivo di primo pomeriggio, un giovane di Castelfranco Emilia lamentava di non aver mai ricevuto un computer speditogli da Santa Maria Capua Vetere a mezzo del servizio postale con paccocelere 3.

Si dice che il desiderio di comunicare sia nato con l’uomo. E l’uomo, sin dalle origini, ha sempre cercato i mezzi più rapidi per inviare e far pervenire i propri messaggi.

Fin da quando mi occupavo di organizzazione dei servizi postali è sorto in me il convincimento che la comunicazione e il disservizio postale siano nati insieme. E insieme abbiano serenamente convissuto da sempre.

Prima delle tavolette di argilla, della pergamena, della carta e dell’alfabeto, ai primordi della civiltà, gli uomini si scambiavano messaggi oralmente. Non esistono prove, ma certamente si sarà verificato che un uomo, incaricato di portare un messaggio al capo di una tribù distante giornate di cammino, giunto a destinazione avesse dimenticato il testo da riferire o lo avesse partecipato in maniera distorta. Fu il primo disguido “postale” della storia dell’umanità.

Poi vennero le comunicazioni attraverso i segnali di fumo. Fu questo, certamente, un sistema più celere e avanzato rispetto al precedente, ma anche in una giornata chiara e splendente di sole era sufficiente un refolo di vento perché il messaggio giungesse distorto o incomprensibile.

Poi vennero l’alfabeto e le tavolette di argilla degli Assiro Babilonesi. I messaggi, incisi sulle tavolette di argilla seccate al sole, venivano affidati a messaggeri che, a piedi o a cavallo, erano incaricati del recapito al destinatario. Ma in agguato certamente vi fu qualche volta la caduta del messaggero o del messaggio con la conseguente rottura o abrasione della tavoletta, sicché la comunicazione risultava incomprensibile.

Finalmente arrivarono prima il papiro poi la carta che consentirono di eliminare questo tipo di inconvenienti alleggerendo anche il peso della bolgetta.

Ed anche lo sviluppo della rete stradale contribuì notevolmente a rendere più celeri e agevoli le comunicazioni.

Quelle raccontate più sopra sono certamente “fantasie”, ma una mini ricerca tra documenti pervenuti fino a noi e custoditi nell’archivio Datini di Prato conferma la mia convinzione che il disservizio postale risalga alla notte dei tempi.

Nel 1300 sono stati organizzati i primi servizi postali privati che poi si sono sviluppati e sono stati assorbiti dagli Stati assumendo la caratteristica di servizio pubblico. Per ridiventare, ai tempi nostri, privati o quasi.

Comunque, privati o pubblici che fossero, i servizi postali sono sempre stati “arricchiti” da disservizi e conseguenti lamentele.

In una lettera del 22 aprile 1383 spedita da Pisa e diretta a Genova si legge “queste lettere ci sono tornate addietro addì 7 di questo perché mostra il fante che le recava fosse morto in riviera...” In questo caso la colpa del ritardo non poteva certo attribuirsi al “postino”, ma il disservizio ci fu.

E ancora: in una lettera da Avignone per Bruges dell’11 marzo 1408 leggiamo “e prima questo dì abiamo lettere da Giacomini e con ese un mazzo di lettere vostre... le quali, per tristizia del corriere... le lasciò in su una panca a l’oste...”

E queste irregolarità e ritardi nel recapito dovevano essere parecchie se nacque il vantaggio, una specie di postacelere dei nostri tempi.

Si trattava di un compenso, un sovrappiù di tariffa, generalmente corrisposto in parte dal mittente ed in parte dal destinatario per avere un servizio più celere e sicuro.

Il corriere del vantaggio, infatti, per avere diritto al sovrappiù doveva rispettare i termini di consegna fissati dal mittente.

Si legge in una lettera del 26 aprile 1384 da Genova a Pisa: “questa vi scriviamo per corriere il quale vi mandiamo con vantaggio di fiorini 1: qui gli diamo fiorini mezzo, chostà gli darete l’altro. E debevi essere addì 29 venerdì a vespro e se non v’è non gli date denari…”

Ma qualche volta neppure l’antesignano del servizio postacelere è al livello di efficienza promesso se leggiamo “Venìa con vantaggio ma non servì”.

E che anche il servizio ordinario lasciasse, almeno in qualche caso, a desiderare ne viene prova indiretta dalle lettere sulle cui soprascritte i mittenti apponevano incitamenti ai messaggeri come cito, ossia presto, oppure cito cito, anche ripetuto fino a sette volte. E qualche mittente, forse più esigente, scriveva “cito cito cito et volantissime sine mora”.

Ma non basta! Sono giunte sino a noi lettere che recano sull’involucro, oltre alle esortazioni a fare presto, vere e proprie minacce all’indirizzo dei latori inadempienti con il disegno di una forca.

Non è arbitrario concludere che se alla esortazione alla celerità si aggiungeva la minaccia della forca qualche lamentela doveva essere più che fondata.

Con l’andar degli anni i volumi di traffico aumentarono e gli Stati, con la motivazione ufficiale di dare maggiori garanzie ai cittadini e con quella, non dichiarata, di trarre vantaggi economici da un’attività in rapida espansione, ben remunerata e pertanto redditizia, assunsero in gestione diretta e in regime di esclusività i servizi postali, che certamente migliorarono in regolarità e certezza, anche tariffaria, ma non per questo raggiunsero qualità ottimali.

I problemi postali, che portarono conseguenti danni agli utenti, sono consacrati nelle scritture dell’epoca. Ne stralciamo alcuni: nel 1849 nel percorso tra Bologna e Faenza avvennero ben 11 rapine in danno di vetture postali. E se consideriamo che il riferimento è a un breve tratto dell’itinerario Bologna-Roma, il giovane che il 3 dicembre scorso lamentava in televisione la perdita del pacco contenente il computer tra Santa Maria Capua Vetere e Castelfranco Emilia potrebbe, dal fatto sopra ricordato, trarre un qualche motivo di conforto?

Anche la scarsa efficienza dei mezzi impiegati per il trasporto influiva talvolta negativamente sulla qualità del servizio se è vero, come riportato in documenti che ormai fanno parte della storia postale, che il 9 dicembre 1855 giunse alla Direzione delle Poste di Bologna una protesta di commercianti romani, toscani e bolognesi per i ritardi causati all’inoltro delle corrispondenze dai cavalli di ”infimo ordine” forniti al “legno di Posta” tanto che sul tratto tra Cesena e Forlì “si maturò un ritardo di 14 ore”.

E ancora un caso, ben diverso: il 6 agosto 1852 il Direttore delle Poste di Bologna segnalava all’Ispettore Marchese Filippo Boschi che con la posta ordinaria da Roma “in luogo del corriere da Rimini giunse, in sua vece, il Direttore significando che il suddetto corriere erasi fermato a Rimini per fare i bagni di mare”.

Per lo meno questo episodio sottolinea l’antico impegno e la costante preoccupazione del dirigente di assicurare il servizio.

Credo siano pochi coloro che non sono mai stati vittime di un qualche disservizio postale.

Non ne fu indenne neppure Benito Mussolini, il Duce del Fascismo, e lo dimostra questo episodio, probabilmente poco noto.

Si era nel 1942. La guerra era in pieno svolgimento anche se ancora non era visibile la drammatica fine del conflitto e del regime. Lavorava all’ufficio telegrafico di Ancona una brillante e giovane impiegata, Clara Uncini, scomparsa poco più di un anno fa. Allora i sistemi di telecomunicazione non erano supportati dalla attuale tecnologia, per cui i telegrammi provenienti dalla capitale e diretti a Rimini venivano “appoggiati” all’ufficio telegrafico di Ancona che provvedeva a ritrasmetterli alla città di destinazione non essendovi il collegamento telegrafico diretto fra Roma e Rimini.

Un giorno di quell’ormai lontano 1942 Clara Uncini venne chiamata a rapporto dal Comandante della Milizia postale del capoluogo marchigiano, su preciso incarico del Federale di Ancona. Alla Uncini venne severamente contestato il ritardo da lei provocato nella trasmissione, e conseguente recapito, di un telegramma che il Duce aveva inviato a Rimini a Claretta Petacci, forse per informarla del suo arrivo. Dico forse perché Clara Uncini, fedele al dovere del segreto epistolare, non me ne ha mai voluto svelare il contenuto.

La giovane impiegata cercò di dimostrare la sua buona fede affermando che il ritardo nella ritrasmissione era da attribuire al maggior traffico, alla necessità di dare la precedenza — secondo le norme regolamentari — ai telegrammi classificati urgenti e a quelli esteri.

La cosa finì con una semplice lavata di capo, ma il disservizio rimase.

Negli anni in cui facevo parte dell’Amministrazione delle Poste mi capitava spesso di sentirmi rivolgere, come affabile accusa, una domanda: “dottore, lo sa che una lettera da Milano mi è stata consegnata dopo sei giorni?” oppure “dottore, come spiega che un pacchetto raccomandato speditomi da Bari un mese fa non mi è ancora arrivato e neppure un libro da Cremona?”

Si può cambiare la località di origine e quella di destinazione, la caratteristica dell’invio, la forma cortese con una più aggressiva, specialmente quando l’interlocutore conosceva il mio livello gerarchico nell’ambito della struttura postale, ma la sostanza rimaneva quella. E mi sentivo impotente di fronte a queste denunce che non avrei voluto udire e per eliminare le quali ci battevamo da anni.

Cercavo di trovare almeno delle attenuanti appellandomi ai notevoli volumi di corrispondenza e facendo presente che, considerati i circa sette miliardi di oggetti trattati annualmente, centomila ritardi nel recapito costituivano, in valori assoluti, un numero importante, ma in valori relativi erano meno dello 0,2 per mille di irregolarità. Qualunque azienda lo avrebbe ritenuto un risultato più che accettabile.

Poi veniva l’accusa al sistema postale per gli smarrimenti, le perdite di oggetti, per quelle lettere affidate alle Poste che non erano state mai recapitate.

Anche qui mi soccorrevano i dati statistici, riferiti addirittura alle raccomandate. E citavo: diecimila reclami in un anno per spedizioni mai giunte a destino, su 300.000.000 di raccomandate affidate ai servizi postali, rappresentavano lo 0,003 per cento dell’intero corriere di questo tipo, vale a dire un disservizio ogni diecimila prestazioni svolte correttamente.

Non mancavo, alla fine, di richiamare le possibili responsabilità degli utenti che, in buona sostanza, non erano altro che il disservizio della controparte, peraltro anch’esso da sempre presente nella storia della Posta.

E ricordavo come da documenti delle Regie Poste piemontesi risultasse che nell’anno 1849 su 295.000 lettere impostate ben 996 non furono recapitate perché “male indirizzate”: il 3,37 per mille. Dieci anni dopo il fenomeno era ancor più marcato: nel 1859 su 447.000 lettere ben 2.187 furono quelle “male indirizzate”, pari al 4,89 per mille.

Negli anni ’90 non avevamo dati certi su questo fenomeno, sicuramente ancora oggi presente, ma ogni anno decine di migliaia di lettere erano inviate al macero, in conformità della normativa, perché ne erano state impossibili sia la consegna al destinatario sia la restituzione al mittente.

Alcune di queste lettere recavano indirizzi, diciamo così, singolari come Alla mia cara nipotina, Bologna, oppure A mio figlio soldato a Roma.

Negli anni ne abbiamo visto diversi, di questi anomali indirizzi vergati con grafie incerte e tremolanti, pateticamente riferibili a un nonno un po’ svanito oppure a una mamma che, adorando il figlio, riteneva che fosse per tutti, come lo era per lei, il centro dell’Universo.

Ma al di là di questi casi limite, citabili solo come curiosità, vi erano (e certamente vi sono) molte migliaia di lettere che non potevano essere recapitate perché il mittente aveva dimenticato di apporre nome e/o indirizzo del destinatario oppure li aveva scritti con una grafia illeggibile anche per i ripartitori postali. E non aveva neppure indicato a tergo i propri nome ed indirizzo che avrebbero consentito la restituzione.

In ogni ufficio di distribuzione vi era un’organizzazione per tentare di assicurare il recapito anche di questi invii. Per le lettere dirette alla stessa località recanti il solo nome del destinatario o con indirizzo insufficiente o errato si ricorreva, anzitutto, alla “chiama”: al momento dell’uscita dei portalettere, che avveniva per tutti alla medesima ora, un ripartitore scandiva ad alta voce il nome del destinatario che, spesso, veniva individuato da uno degli addetti al recapito come abitante nel suo quartiere. E si poteva provvedere alla consegna.

Per i casi più complessi si ricorreva alla Sezione inesitate composta da ripartitori con maggiore esperienza che, avvalendosi di elenchi telefonici o effettuando ricerche anagrafiche presso gli uffici comunali, tentavano di individuare i destinatari. E in tantissimi casi ci riuscivano.

In presenza di lettere nelle quali era omessa la località di destinazione si ricorreva alle conoscenze acquisite in anni di lavoro. Così se l’indirizzo recava via Vitruvio l’oggetto veniva avviato all’Ufficio di Distribuzione di Milano, viale della Vittoria era riferibile ad Ancona, via Arsenale portava a Torino, circonvallazione Clodia faceva pensare a Roma. Ed erano molte le corrispondenze che, con queste intuizioni, arrivavano a destinazione.

Gli sforzi erano ben finalizzati e facevano conseguire risultati qualitativi e quantitativi apprezzabili. Ma erano sempre tantissimi gli oggetti postali male indirizzati che, compiuta la prescritta giacenza di un anno, venivano avviati al macero dai singoli Economati provinciali.

Tutte queste argomentazioni venivano cortesemente ascoltato ma non riuscivano a convincere i miei reclamanti interlocutori, i quali non erano disposti ad ammettere che un loro corrispondente potesse essere così distratto da impostare una lettera senza scrivere sulla busta l’indirizzo, o tanto sprovveduto da omettere la località di destinazione.

E quindi rimanevano fermi nella convinzione che del ritardo o del mancato recapito erano responsabili solamente le Poste, regie o repubblicane che fossero.

Immagino che agli attuali dirigenti di Poste Italiane Spa accadano le stesse cose. Sappiano, comunque, che nonostante ogni loro sforzo il disservizio postale continuerà a sopravvivere, sempre in agguato come un maligno diavoletto nato il giorno stesso in cui gli uomini hanno sentito e posto in essere l’insopprimibile bisogno di comunicare.

Si convincano che debbono conviverci, come ci abbiamo convissuto, angosciati, noi e i nostri predecessori.

Rispetto a noi, però, i dirigenti di Poste Italiane Spa hanno una preoccupazione in più, dato che manca loro l’ombrello offerto dall’articolo 6 del Codice Postale del 1973: “L’Amministrazione non incorre in alcuna responsabilità per i servizi postali...”.

Ma, si sa, il progresso costa.

Enrico Veschi

 

Fonti: Quaderni dell’Istituto di Studi Storici Postali di Prato