Il ghetto

C’ è una cosa che non ho mai ben capito: perché la filatelia debba starsene in un mondo tutto suo, con regole e convenzioni tutte sue e sovente incomprensibili. Una cosa alquanto assurda, specie se si considera che la filatelia si occupa di posta, e la posta è comunicazione, e la comunicazione non è solo trasmissione di messaggi per via postale, telegrafica o informatica, ma è anche l’atto o il modo di comunicare, cioè diffondere idee e concetti.

La storia delle comunicazioni è storia dell’uomo, della società umana, delle continue invenzioni che hanno reso sempre più celere, comoda, sicura la trasmissione di messaggi, merci, danaro, idee. E proprio per questo la storia della posta è anche cultura; anzi, un campo fertilissimo per studi, ricerche, analisi. Perché vi convergono creatività e storia, costume ed economia, e in alcune sue espressioni – il francobollo, ad esempio – si tocca la sfera dell’arte, come ha dimostrato Federico Zeri nella sua Storia dell’arte italiana.

Purtroppo però questo concetto non è condiviso da molti, neppure in ambito filatelico e postale. Lo dimostra il fatto che la storia della posta, almeno in Italia, è ancora lontana da altri settori, persino ugualmente collezionistici come la numismatica, che non solo vengono considerati disciplina d’interesse universitario, ma sono accettati anche dal pubblico come genuine espressioni culturali.

Se vi è un ostacolo da parte di molti nell’accettare il fatto che la storia della posta, e più in generale la storia delle comunicazioni, sia parte integrante della cultura universale e dei singoli Paesi, questo è stranamente dovuto, secondo me, proprio al fenomeno collezionistico che dalla posta ha avuto origine e che tanto successo ha riscosso e riscuote in tutto il mondo. La filatelia, con il suo incentrarsi sul francobollo o comunque su elementi collezionabili, con la sua enorme diffusione, con il suo attivismo ad ogni livello, ha finito per diffondere un’immagine distorta della posta e dei suoi elementi di interesse: un’immagine formata praticamente da un solo oggetto, il francobollo, e al massimo dall’annullo che ne è il corollario. Tutto il resto non esiste, o è solo un dettaglio che pochi conoscono.

Gli effetti di questa situazione sono ben poco positivi, visto che il grande pubblico vive ormai il francobollo come un qualcosa ormai quasi desueto – almeno in Italia dove circola sempre meno nel suo stesso ambito postale – o un oggetto semplicemente da collezione, certo gradevole e di facile raccolta, ma anche di scarsa consistenza e valore oggettivo (dopotutto è un semplice pezzetto di carta) a cui però taluni stranamente attribuiscono un interesse e un valore venale che agli occhi di molti appare del tutto spropositato.

A ben guardare, però, non è il collezionismo di per sé a contrastare e annullare gli aspetti culturali della posta, ma il modo profondamente errato con cui il mondo filatelico comunica all’esterno. Quasi sempre con la convinzione di fare opera di propaganda.

Come quando si diffondono con grande enfasi i risultati di certe aste filateliche. Fra i collezionisti il sapere che qualcuno ha pagato oltre due miliardi e mezzo di lire per un Post Office di Mauritius su busta è certamente gratificante, oltre che rassicurante sull’impiego dei propri soldi. Ma verso l’esterno il risultato risulta ben diverso. Perché se buona parte del pubblico accetta già con un certo sforzo che si spendano 50 o più miliardi di lire per un’opera pittorica, che pure rientra nel mitico e culturalmente ineccepibile mondo dell’Arte, la notizia che qualcuno ha speso anche un solo miliardo per un francobollo, cioè per un pezzetto di carta che magari ha il solo pregio di essere unico, risulta del tutto assurda, e quindi controproducente! Nessuna meraviglia se molti ritengono i filatelisti dei pazzi o dei maniaci!

Infatti se si considera il francobollo come oggetto a se stante, avulso dal contesto storico, postale e culturale cui appartiene, lo si riduce praticamente al rango di semplice figurina; bella, attraente e commercialmente pregiata quanto si vuole, ma di scarsa valenza culturale. E questo è tanto più vero quanto più il francobollo viene osservato e persino osannato per elementi del tutto accessori come la rarità, che di per sé ha un interesse del tutto relativo e aneddotico (nessuno sano di mente si entusiasmerebbe per l’opera di un pittore scadente, per quanto d’altri tempi, solo perché è l’unica rimastaci), oppure per la presenza di varietà di stampa che in altri settori sarebbero addirittura penalizzanti (chi mai farebbe follie per un Capriccio di Francisco Goya, anche se proveniente dalle prime tirature, che presentasse una evidente doppia o tripla stampa? Probabilmente non lo vorrebbe nessuno, se non per pochi spiccioli, come curiosità).

L’eccessiva enfasi su rarità e prezzi, se da un punto di vista strettamente collezionistico può avere un aspetto promozionale (ma non ne sarei tanto sicuro, visto che per molti può diventare un deterrente dall’affrontare certe collezioni), d’altro canto finisce per imprimere all’intero settore un aspetto preponderantemente commerciale. Lo sa benissimo chi opera nella redazione di una rivista filatelica: il 90 per cento delle persone che chiede informazioni su un francobollo o un oggetto postale non vuol sapere se abbia un interesse storico o culturale ma semplicemente quanto vale!

E questo non è il solo danno prodotto da una certa filatelia all’immagine del francobollo. La costante e attivissima opera di proselitismo da parte di singoli collezionisti e delle loro associazioni, tipica del mondo filatelico sin dalla fine del secolo scorso, è anch’essa causa di un effetto a suo modo negativo: la passione per il mondo della posta diventa infatti un semplice “hobby”, cioè qualcosa di piacevole, gratificante, rilassante — come il giardinaggio, il fai-da-te, il ricamo o la canasta — e proprio per questo ben poco culturale.

Quando poi questo proselitismo si indirizza troppo platealmente verso i giovanissimi, o addirittura entra nella scuola, la filatelia diventa roba da ragazzini o — nel migliore dei casi — una sorta di sussidio didattico, come un mappamondo o dei fiori secchi. Col rischio, per di più, che questo insegnamento sia fatto in modo pedante o insulso, facendo sì che quei ragazzini archivino per sempre la filatelia fra le cose inutili e noiose imposte loro sui banchi di scuola, e quindi detestabili.

A tutto questo si aggiunge, come notavo sin dall’inizio, una spiccata tendenza della filatelia ufficiale all’autoghettizzazione, dovuta a una specie di complesso d’inferiorità nei confronti di altre forme di collezionismo o della stessa cultura. È indicativo, ad esempio, il fatto che raramente i libri relativi a posta e francobollo arrivino a essere distribuiti nelle librerie: un timore di non vendere che chiaramente non hanno molti altri editori persino più specialistici, i quali pubblicano e diffondono opere dedicate a sindacalismo, poesie popolari orientali, coltivazioni bonsai e altre tematiche che sovente rappresentano nicchie di mercato ben più ristrette della filatelia.

È una somma di effetti negativi che, a ben vedere, proviene dalla stessa diffusione della filatelia avutasi nel corso del ‘900, e che ha portato col tempo a una distorsione di alcuni concetti che ancora alla fine del secolo precedente erano più che giusti e accettabili.

Nell’800, ad esempio, l’interesse per il pezzo raro aveva un senso, anche sul piano culturale, che giustificava esposizioni ad hoc. Innanzitutto a quell’epoca il pezzo raro e desiderabile era di norma un francobollo-tipo, come il 3 lire di Toscana o il 6 baj di Romagne usato, o al massimo un errore eclatante (come un tête-bêche, uno scambio di colore, un centro capovolto) che serviva a dimostrare possibilità e limiti delle tecniche di stampa. E le occasioni di vedere simili rarità erano poche: solo un’esposizione filatelica per l’appunto, che allora era un evento altrettanto raro. Oggi invece le riproduzioni di pezzi rari, rigorosamente a colori e spesso ingranditi, si sprecano; e l’originale visto dal vero può apparire persino deludente al confronto.

Nell’800 il fatto che teste coronate e magnati collezionassero francobolli diventava uno stimolo all’imitazione di tipo altamente nobile, è il caso di dire, e nobilitante per lo stesso francobollo. Oggi invece si parla solo più di cifre iperboliche pagate da acquirenti spesso misteriosi, e lo stimolo al massimo è di tipo affaristico-borsistico. Con tutti i rischi che questo comporta.

Nell’800 si pubblicavano libri e riviste — penso al Moens e a Stanley Gibbons, ai nostri Cresto e Diena e al Francobollo dell’Unione Filatelica Lombarda di un secolo e passa fa — in cui si parlava di nuove emissioni, di collezionismo, di vendite di francobolli ma soprattutto di storia della posta, antica e moderna, in tutti i suoi aspetti di maggior interesse, compresa la normativa, le statistiche dell’UPU, le abitudini postali e i servizi più strani inventati in capo al mondo. Ovvero si inseriva il collezionismo nel suo giusto ambito culturale. E faccio notare per inciso che, con buona pace di Robson Lowe, da noi un certo Sassi usava il termine “storia postale”, e in modo del tutto appropriato, già nel 1894! Dall’ultimo dopoguerra si è invece abbandonato questa strada, pubblicando libri e riviste in cui il fatto culturale risulta sovente un semplice contorno, sovente di comodo o di maniera, e ciò che conta sempre più sono l’investimento, la qualità, la rarità a tutti i costi, l’immagine policroma fine a se stessa.

Con questo non intendo minimamente asserire che il momento commerciale sia in contrasto con il momento culturale. Anzi, vorrei affermare esattamente il contrario. Un oggetto collezionistico che presenti un elevato grado d’interesse culturale sarà sempre più appetibile e meno soggetto agli alti e bassi delle mode filateliche rispetto a un oggetto semplicemente bello o raro. Così come l’interesse commerciale per un settore collezionistico finisce per offrire possibilità di ricerca, di pubblicazione, di diffusione ben più ampie di quelle che può avere un oggetto semplicemente interessante sul piano culturale.

In pratica fra collezionismo, inteso anche come momento commerciale, e cultura si può sviluppare una sinergia che può essere utile per tutti.

Come riuscirci? Con la più semplice e lineare delle strategie. Primo: approfondendo in modo serio il background culturale della posta e del francobollo. Secondo: comunicando questo background nel modo giusto all’esterno del mondo collezionistico.

Il primo passo è scoprire l’importanza e il ruolo prioritario che la posta ha avuto nella società, soprattutto nell’800 e fino alla metà del ‘900, e analizzare le trasformazioni che il servizio postale sta avendo a fronte dell’evoluzione tecnologica portata dall’informatica e dalla liberalizzazione dei mercati. È questo il primo passo per comprendere le mille possibilità di ricerca, di studio, di analisi storica, artistica, sociale, di costume che la posta e il suo mondo possono offrire. E per comprendere anche che da questo può venire un elevato “valore aggiunto” a molti oggetti collezionistici, dal francobollo alla busta, dall’intero postale alla modulistica, dal bollo prefilatelico al più moderno francobollo automatico.

Anche perché la scoperta delle tante implicazioni storiche, sociali, tecniche, artistiche che spesso costituiscono la ragion d’essere di un pezzo postale può ampliarne enormemente le possibilità di diffusione: facendolo uscire dall’ambito di argomenti strettamente postali per diventare elemento di supporto ad altre ricerche e discipline.

Pensate solo a quanto materiale può offrire la posta per dimostrare o evidenziare l’evolversi di una guerra, il suo impatto sulla gente e sulle abitudini, il coinvolgimento effettivo della popolazione e delle istituzioni, e questo sia sotto l’aspetto ufficiale che nella quotidianità degli avvenimenti. Il dimostrare come questo supporto ad altre discipline storiche, tecniche, artistiche sia fattibile ed utile è già un passo importante nell’affermare e diffondere l’aspetto culturale della storia della posta.

Studi e ricerche per conoscere quanti esemplari si conoscano con una certa varietà, o quante buste esistano con tre esemplari del 60 cent. De La Rue disposti a seggiola più uno da 2 cent. rosso mattone pallido con bordo di foglio, possono forse essere interessanti per alcuni commercianti, e farsi apprezzare da qualche collezionista, ma postalmente e culturalmente sono il nulla assoluto, e fuori dal mondo strettamente filatelico non dicono assolutamente nulla. Come se a me raccontassero che della prima edizione dei Promessi Sposi si conosce anche un esemplare con un sedicesimo stampato su carta rosacea; per quanto possa essere un fan del Manzoni, dire che non me ne potrebbe importare di meno è usare un eufemismo!

Anche la più semplice e lineare delle trattazioni sulla storia della posta o su qualche particolare aspetto dei servizi e delle carte valori postali, realizzata in modo da poter interessare anche chi non è addentro alla materia postale, con rigore scientifico ma senza virtuosismi su dettagli di puro stampo filatelico (o perlomeno lasciandoli in nota, per i più appassionati) è invece il miglior mezzo per veicolare all’esterno un’immagine culturale del mondo della posta, perché ne nobilita la storia e lo stesso collezionismo.

È quello che, ad esempio, abbiamo tentato di fare con Posta e francobollo, il primo volume firmato dall’Accademia, fornendo un panorama il più ampio ed esauriente possibile sulla posta dall’antichità ad oggi, sulla sua organizzazione, i sistemi d’affrancatura, le carte valori ecc. ma fuori dagli schemi prettamente filatelici, evitando persino di trattare filigrane e dentellature; e scegliendo le illustrazioni in funzione dell’interesse che possono evocare in un pubblico il più ampio possibile, non solo fra collezionisti già esperti.

È quello che tentiamo di fare con Storie di Posta, con articoli sempre autonomi ed esaustivi, uscendo persino dai binari della tradizione editoriale filatelica per trattare argomenti apparentemente lontani dal francobollo o dal collezionismo, ma in realtà strettamente legati alla posta e alla trasmissione di messaggi, merci, danaro e idee.

Comunicare all’esterno del mondo filatelico in modo marketing oriented, cioè pensando con la testa di chi riceverà il messaggio, in base ai suoi possibili o comprensibili interessi, ed evitando tutto ciò che invece potrebbe distoglierlo o addirittura risultare controproducente: questa dev’essere oggi la strategia di un collezionismo intelligente, che abbia davvero a cuore le sorti della filatelia, intesa anche come commercio e come hobby. Perché è l’unico modo per avere quell’immagine elevata, nobile e culturale che sola può attrarre nuovi seri estimatori, gratificare chi è già collezionista e consolidarne la passione, dare un effettivo valore aggiunto al materiale che collezioniamo, farne emergere di nuovo.

E qui sarebbe opportuna una raccomandazione, a Poste Italiane SpA, agli editori, ma anche ai circoli e ai singoli collezionisti: comunicare vuole soprattutto dire far arrivare al pubblico. Quindi non solo pubblicare articoli e volumi interessanti ma consentire anche al pubblico di metterci le mani e gli occhi sopra. Oltre alla diffusione in libreria, anche solo in alcune librerie, sono del parere che una copia debba essere presente nelle biblioteche pubbliche, almeno le più importanti. Se non altro per evitare quel che accadeva a me agli inizi della mia passione filatelica: la delusione di non trovare nulla sui francobolli proprio in biblioteca. Era come dire che la filatelia non era degna di un posto fra gli scaffali che contenevano la cultura e lo scibile umani!

Essere su quegli scaffali, tra Omero e l’ultimo romanzo di Benni, a fianco di un trattato sui partiti politici e di un manuale di tecnica edilizia: anche questo, in fin dei conti, è produttivo. Soprattutto è comunicazione. E vale più di tante belle parole.

Franco Filanci