Per niente estraneo, e neppure optional

Piccolo è bello sembra essere il motto dell’odierna filatelia ufficiale, non solo italiana. Tutto dev’essere contenuto in un orticello ben ordinato, squadrato, pieno di paletti e di divieti. Anzi, possibilmente un orticello contenente due o tre sole varietà di piante-collezioni. Forse perché ci si possa aggirare a proprio agio anche chi non vuole impegnarsi troppo a guardare dove va e non ha i mezzi per affrontare l’esterno.

Ecco allora le tante regolette su che cosa è degno di collezione e cosa no, su come si deve classificare un francobollo, sul modo “giusto” di collezionarlo, montarlo, descriverlo, esporlo per ricevere il plauso dell’establishment filatelico.

Per chi vuole giocare al piccolo filatelista non c’è nulla di male in tutto questo, anche se — a ben guardare — finisce per essere il gioco più complicato e maniacale che sia mai stato inventato. Ma per chi ama davvero i francobolli e la posta si tratta di un vestito troppo stretto e troppo rigido, che risulta persino ridicolo con il suo stile e i suoi modellini su misura per una borghesia fine Ottocento.

Se c’è infatti una cosa davvero affascinante nella storia della comunicazione postale e di tutto ciò che ha creato — a cominciare dal francobollo fino alla modulistica — questa è la ricchezza di relazioni con tanti altri settori dell’attività umana, proprio per il fatto che la posta era istituzionalmente al loro servizio ed era loro indispensabile, e per questo veniva ad assumere valenze politiche, sociali e di costume di primario rilievo.

Tutto questo porta alla necessità, per valutare i francobollt e i documenti postali, non solo di conoscere — o di essere aperti a conoscere — ogni altra possibile scienza o disciplina, dall’economia all’arte fino alla storia del sindacalismo e della stampa, ma anche di non limitarsi l’orizzonte della ricerca in base a nozioni che molto spesso non hanno alcun reale fondamento.

Questo volume di Storie di posta è oltremodo indicativo di quanto sto enunciando. Ad esempio l’articolo di Fiorenzo Longhi sull’ aeronautica italiana nella guerra italo-turca del 1911-12 si fonda sui bolli di reparto presenti nei documenti postali dell’epoca: bolli che, essendo approntati dai singoli reparti in piena autonomia (e questo anche in seguito, nel corso delle due guerre mondiali), sono considerati da molti come “non postali” e quindi inaccettabili in una seria collezione filatelica o storico postale. O al massimo utilizzabili come accessori, l’equivalente dei timbri con il nome e l’indirizzo del mittente usati quando non c’era l’abitudine alle buste intestate.

Eppure basta conoscere un po’ di storia postale — generica o militare che sia — per rendersi conto che questi bolli di reparto non erano per nulla un optional, nemmeno nel Novecento. Come già nel secolo precedente per ogni altra corrispondenza che si intendeva inoltrare in franchigia, era infatti necessario che il diritto a questo privilegio fosse confermato dalla “qualità” del mittente e del destinatario. E se il secondo era rilevabile dall’indirizzo, il primo doveva essere confermato da un contrassegno ufficiale, non importa se fornito dall’Amministrazione pubblica, realizzato dallo stesso utente, o persino manoscritto. Come si fa a definire non postale un contrassegno del genere, senza il quale non si poteva godere dell’inoltro per posta in esenzione dalle tasse postali?

Al massimo, sotto il profilo filatelico-commerciale, si potranno inserire questi bolli fra quelli da trattare con le pinze — non le pinzette — visto che qualcuno potrebbe inventarsene ancor oggi di nuovi per aumentare il pregio di qualche vecchia lettera o cartolina di nessun appeal commerciale. Ma dire che non hanno interesse né valore postale è decisamente un nonsense.

L’aver voluto approfondire il tema della posta aerea ha portato a tante altre considerazioni in quanto a luoghi comuni ufficiali della filatelia. A cominciare dal quasi storico conflitto tra chi si appassiona a francobolli durati l’espace d’un matin — spesso neppure quello — e buste sfacciatamente “costruite”, arrampicandosi sugli specchi per dimostrare che sono documenti e testimonianze degne di memoria, e chi si arrocca tra le muraglie di una storia postale ben poco realistica e obbiettiva per negare ogni interesse all’intero settore, almeno dagli anni ‘20 in poi, proprio a causa degli interventi filatelici che avrebbero tolto ogni genuinità a questa produzione.

Infatti sbagliano entrambi. E di grosso. Perché non esiste solo il materiale preparato dai vari Bayér dell’epoca; e d’altra parte una corrispondenza può essere genuina anche quando il mittente interviene sulla soprascritta — per suoi interessi diciamo mailartistici, per burloneria o per altre ragioni non necessariamente filateliche — scegliendo o sistemando i francobolli in un certo modo. Perché quei francobolli possono anche essere stati preparati a fini puramente e smaccatamente commerciali, ma ad esaminarli storicamente e senza paraocchi sono persino più interessanti di quanto non dica l’aerofilatelia ufficiale.

E soprattutto, andando a vedere nella quotidianità di questo servizio accessorio, nelle pieghe dei relativi regolamenti postali, nella nube informe e magmatica delle sue soprattasse e dei continui cambiamenti dei tariffari — tutte cose di cui si è scritto poco o nulla, proprio a causa del dissidio tra fautori del tutto bello e sostenitori del tutto marcio — si possono scoprire aree di approfondimento ancora vergini, ricche, stimolanti. Soprattutto per il riferimento ad altre discipline nelle motivazioni che ne sono alla base, dalla concorrenza alla propaganda, dalla politica agli interessi nazionali, magari per la bauxite.

È una diversa chiave di lettura — non solo della posta aerea e dei suoi francobolli ma anche di tanti altri settori e della stessa storia postale — meno filatelica, e soprattutto meno legata a posizioni stantie che ancora persistono in filatelia. Come quella sulla liceità e sull’ufficialità di un’emissione: la storia è fatta di realtà, non di ipotesi. Se un francobollo è stato venduto regolarmente e liberamente al pubblico anche in un solo ufficio postale, non si può dire che non esiste perché non l’ha fatto chi ne aveva ufficialmente il potere. Mentre un francobollo che non è stato venduto neppure in un ufficio postale durante il periodo di validità può avere tutti i decreti ufficiali che vuole ma resta quel che è: un aborto.

Interdisciplinarietà, logica e apertura mentale. Ecco le chiavi per godere appieno di tutto ciò che la posta e il francobollo sanno e possono offrirci, e che vanno ben oltre la rarità e la qualità del piccolo pezzo di carta in sé. Per approdare addirittura alla filosofia più attuale e controversa (con Jacques Derrida e il suo La carte postale) o sull’etichetta di un vino australiano, come potete leggere nelle recensioni dell’implacabile Club dell’occhio attento.

Un sentiero troppo difficile, come teme qualcuno? Direi proprio di no. Specie dopo l’apprezzamento, soprattutto da parte dei lettori più giovani (in ogni senso), del primo articolo di David Scott, a prima vista ostico ma in realtà molto stimolante per la chiave di lettura dei francobolli che ci offre: alta e seria e soprattutto antitetica a certo snobismo filatelico verso le vignette dei francobolli, giudicate un semplice accessorio, o peggio un mezzo per vendere patacche ai collezionisti. E invece basta uscire dall’asfittico orticello della filatelia ufficiale per accorgersi che persino in quelle esotiche vignette del periodo coloniale che un tempo si mettevano nelle confezioni filateliche per ragazzini c’è molto di più. Di più interessante. Anzi, di storico. Persino con quei tocchi di ridicolo e di sgradevole che sono tipici della Storia.

Franco Filanci