Rarità filateliche e pezzi da museo

Il clamore suscitato dal gran premio WIPA, attribuito per la prima volta a una collezione prefilatelica anziché alle più tradizionali collezioni zeppe di rarità filateliche, è stato a mio avviso decisamente utile per comprendere meglio il mondo del collezionismo. Esso infatti ha fatto emergere in tutta la sua evidenza l’aspetto più sottinteso e proprio per questo più ipocrita della filatelia ufficiale, ovvero la norma non scritta ma abbondantemente vulgata nei salotti buoni che gare e premi sono strettamente in funzione del valore commerciale dei pezzi esposti e degli interessi dei grandi operatori del settore. “Se uno non spende almeno 400 milioni l’anno non può ambire ai massimi livelli di premio,” diceva trent’anni fa l’allora presidente della Federazione, che di quel mondo era un esperto. Da allora sono cambiati i regolamenti, i concorrenti, i prezzi di catalogo e persino i discorsi di circostanza (ora infiocchettati di “cultura” e “storia postale” anziché di “fratellanza” e “universalità”, evidentemente finiti tra i concetti obsoleti) ma non la sostanza di questa regola. Senza contare un altro elemento ben poco consono alle valutazioni sul merito che dovrebbero guidare queste giurie e che emerge da molte dichiarazioni e interviste apparse sul caso WIPA: ovvero l’esistenza di considerazioni e favoritismi di natura squisitamente locale (il massimo premio deve andare a un collezionista del posto, o a una collezione sui francobolli dello Stato ospitante), anch’essi non scritti ma tranquillamente applicati senza il minimo problema.

Ma il caso WIPA ha evidenziato un altro elemento di notevole spessore, anche se pare che nessuno se ne sia accorto: ovvero quanto distorto possa essere il significato dei termini “rarità” e “interesse” in campo collezionistico, e soprattutto in filatelia, dove un secolo di mode e di manie ha portato a pratiche e abitudini spesso al limite dell’assurdo.

Come la maggior parte degli appassionati di filatelia e storia postale io non sono un gran frequentatore di queste megamostre dove c’è di tutto un po’ e mai nulla di completo ed esaustivo; ma seguo attentamente quanto viene pubblicato. E leggo in uno dei tanti articoli-inchiesta apparsi sull’argomento che nella collezione premiata di Fritz Puschmann erano fra l’altro presenti due lettere, una del duca Ferdinando I e l’altra dell’imperatore Massimiliano II, relative all’istituzione del servizio postale pubblico nell’Impero absburgico. Lettere che, secondo chi critica i risultati di WIPA 2000, sono certamente importanti ma assolutamente non paragonabili ad alcune “gemme” della collezione – candidata al Gran premio ma rimasta al palo – di Ottavio Masi, quali il blocco di 28 esemplari del 45 centesimi del Lombardo Veneto completo di 4 croci di Sant’Andrea, e la lettera da Verolanova con l’intera prima serie emessa nel 1850 nel Regno Lombardo Veneto.

Io forse sarò una persona all’antica, o deformato da un’eccessiva attenzione per la cultura, ma decisamente non capisco perché dovrei entusiasmarmi per la lettera di Verolanova, così come per molte altre acclamate rarità filateliche che hanno come unica ed esclusiva caratteristica quella di essere per l’appunto una rarità. Ovvero un pezzo unico e basta. Da un punto di vista storico, documentario, sociale e anche postale, che cosa c’è di eccezionale nel fatto che su quel plico ci fossero tutti e cinque i francobolli in uso in quel momento? Assolutamente nulla, se non il fatto che il mittente si era divertito ad affrancare usando cinque francobolli quando ne bastavano tre: due da 30 cent. e uno da 45, oppure due da 45 cent. e uno da 15. Un po’ poco per parlare di pezzo eccezionale, che è cosa ben diversa da pezzo unico. Anche il San Sebastiano che si trova in un angolo della vecchia chiesa del mio paese è l’unico quadro rimasto, e forse dipinto, da un settecentesco pittore locale di cui non ricordo neppure il nome: ma non per questo fa impazzire i critici e i mercanti, né viene stimato il doppio dei miliardi a cui si vendono le opere del Tiziano o di Turner, che pure sono tantissime.

Il pezzo veramente interessante – e non necessariamente unico né raro – è quello che documenta fatti, usi, avvenimenti che sono parte della storia umana, nel nostro caso relativa alla posta e alle comunicazioni. E che per questo potrebbe entrare a pieno diritto in un museo (postale e sovente anche d’altro tipo) come parte di un’esposizione di documenti significativi di un’epoca, di un luogo, di una mentalità.

Sono molti i pezzi di questo genere, pur restando nel ristretto campo dei materiali normalmente collezionati dai filatelisti:

tutte le carte-valori tipo e il materiale relativo alla creazione di francobolli, interi postali, ecc., anche mai posti in corso;

la documentazione relativa alla nascita del servizio postale nei diversi Paesi, del francobollo, dei vari servizi accessori offerti dalla posta, telegrafo, telefono ecc., nonché delle poste ausiliarie o private;

le bollature e la modulistica create e utilizzate in tutti questi servizi;

le corrispondenze, i plichi e quant’altro documenta i diversi servizi svolti dalle poste e le loro modalità di svolgimento;

gli impieghi di carte valori e bollature conseguenti a particolari contingenze storiche (miste tra francobolli di diversi Paesi, affrancature d’emergenza, ecc.);

l’iconografia relativa alla posta e ai suoi servizi.

La lettera di Massimiliano II rientra a pieno diritto fra questi reperti museali, così come la “Croce di Savoia” e l’80 cent. della Democratica, una corrispondenza per espresso urgente e un bozzetto del Mezzana, una lettera viaggiata per ballon monté e una cartolina illustrata con l’ufficio postale di Guastalla. Sono pezzi che non possono mancare in una collezione che tratti in modo esauriente i vari argomenti a cui questi pezzi si riferiscono.

Il blocco del 45 cent. con le croci di Sant’Andrea può rientrare anch’esso in questo gruppo, ma come alternativa; nel senso che per dimostrare com’erano composti i fogli dei francobolli austriaci dell’epoca qualunque valore va bene, e anche un solo esemplare con la croce a fianco può servire, insieme a uno schema del foglio completo.

La lettera di Verolanova invece è solamente un optional. Colorato, insolito, divertente, un tocco indubbiamente personale in una collezione specializzata, ma per nulla necessario a dimostrare l’uso reale dei francobolli del Lombardo-Veneto. Qualunque trattazione, anche la più sofisticata, ne può fare benissimo a meno.

E che queste considerazioni reggano anche sul piano mercantile è stato dimostrato persino dalle aste, in cui pezzi unici veramente da museo – come la busta con il 3 lire di Toscana – sono stati combattutissimi mentre altri con combinazioni insolite o multipli inconsueti — di quelli che un vecchio commerciante definiva “gemme che ogni collezionista vorrebbe possedere” — sono rimasti al palo, invenduti. Proprio a causa delle valutazioni troppo elevate: chiunque è disposto a spendere qualcosa in più per mettere in raccolta un pezzo insolito al posto di quello più “normale”, a patto però che non si esageri.

Ovvero, per un pezzo veramente significativo, “da museo”, si possono anche far follie, specie se è molto raro o addirittura unico, perché interessa molti collezionisti. Alle rarità filatelica invece sono interessati soltanto i filatelisti e gli operatori filatelici, sovente solo quelli che ruotano attorno ai Gran premi.