Parte prima - L'evoluzione della posta

Spedire e ricevere una lettera sono un fatto così normale, quasi scontato, che quasi non ci facciamo più caso; anzi, per qualcuno, sono ormai passato remoto, cose d’altri tempi. Sul piano storico, poi, le solite citazioni del cursus publicus romano o dei corrieri dell’Impero cinese fanno pensare a molti che la posta che noi conosciamo esista da sempre, seppure in forme più rudimentali. In effetti il messaggio scritto si può probabilmente datare da quando è nata la scrittura. A provarlo sono le antiche “lettere” mesopotamiche in argilla, già complete di busta anch’essa d’argilla.

Una tavoletta sumera in argilla recante ancora parte della relativa “busta” ottenuta con un nuovo strato d’argilla, scritto prima di una nuova cottura (Archivio storico Bolaffi della filografia e della comunicazione)

Nella realtà invece non è così. La posta, almeno come noi la intendiamo, è un fenomeno relativamente moderno. La sua storia, alquanto movimentata e strettamente legata all’evolversi della società civile, della mentalità, dei costumi, delle tecnologie, può essere suddivisa in periodi ben precisi: prima la semplice Arte di arrangiarsi, seguito dal tempo dei Mercanti, poi l’epoca dell’Affare di Stato, quindi la Rivoluzione Napoleonica cui fa seguito un’altra rivoluzione, la Grande Riforma inglese, infine l’epoca del Progresso e della Specializzazione, che si conclude oggi (ma sarà davvero un finale?) con il ritorno all’era del Mercato.

Quando la posta nel migliore dei casi era una locanda

Oggi un foglio piegato contenente un messaggio è una cosa comune, persino un po’ antiquata in un’epoca dominata dal telefono e da Internet. Ma solo un millennio fa era esattamente l’opposto, era una rarità. Infatti perché una lettera possa esistere devono combinarsi quattro importanti circostanze, che nella storia umana si sono verificate con molta gradualità.

1. Devono essere in molti a saper leggere e scrivere, cosa che solo nell’ultimo secolo si è verificata. Persino in molti Paesi europei ancora agli inizi del ‘900 gli analfabeti erano la maggioranza, tanto che fra i mestieri del tempo ne era rimasto uno antichissimo, lo scrivano: un signore che per strada, armato di tavolino carta penna e calamaio, per pochi spiccioli scriveva sotto dettatura o leggeva lettere e altri documenti a chi non sapeva farlo e non aveva neppure qualcuno in famiglia a cui chiedere aiuto.

2. Occorre che la gente abbia occasione di allontanarsi da casa, altrimenti non c’é bisogno di scrivere lettere. E invece — anche se i flussi migratori alla ricerca di lavoro si conoscono fin dal Trecento — ancora agli inizi del Novecento, o almeno fino all’introduzione del servizio di leva obbligatorio, specie nelle campagne gran parte della gente nasceva viveva moriva senza allontanarsi più di tanto dal paesello natio, dove vita e socialità si esaurivano nel raggio di poche decine di miglia.

3. È necessario un materiale comodo per scrivere, facile da trovare e non troppo costoso; e purtroppo i fogli di papiro o di pergamena non rientravano in questa categoria. Solo la diffusione della carta in Europa, soprattutto a partire dal tardo Medioevo, diede una soluzione al problema, favorendo anche la stampa e quindi la diffusione della cultura e delle comunicazioni.

4. Occorre qualcuno che porti la lettera a destinazione. E fino al Settecento, e anche dopo in gran parte del mondo, vi furono non pochi problemi in proposito. Le tanto citate poste dell’antichità, dai Persiani alla Roma imperiale fino agli Imperatori cinesi, erano infatti certamente ben organizzate, rapide, sicure, ma con un notevole limite: a utilizzarle erano soltanto le autorità dello Stato, essenzialmente per l’invio di comunicazioni ufficiali. E anche in seguito i potenti — che del leggere e dello scrivere hanno sempre fatto un’arma di potere — avevano al proprio servizio messaggeri a piedi o a cavallo da usare per i loro bisogni.

Tutti gli altri, se proprio avevano necessità di inviare un messaggio, dovevano arrangiarsi: i ricchi mandavano un loro servo o uno schiavo, i mercanti utilizzavano gli stessi trasportatori cui affidavano le loro merci oppure pagavano un messo, gli altri ricorrevano a qualche viandante, ben felice dell’accoglienza e dell’obolo che lo attendeva alla consegna. E i più fortunati erano quelli che risiedevano sulle rotte dei pellegrini che da tutta Europa affluivano a Roma, e viceversa; gente quasi sempre appiedata anche se benestante e fornita di servitù (un carro tirato da buoi o da somari era il massimo del lusso e della comodità) che rappresentava anche il “mezzo” più usato per inviare messaggi, per buona parte orali, e per ottenere notizie di quanto avveniva nel mondo, almeno quello da cui provenivano.

In pratica fino a tutto il Trecento non solo il servizio postale ma anche la parola posta erano del tutto ignoti. O perlomeno con posta si indicava semplicemente un posto lungo la strada, sia nei borghi che lontano dai centri abitati, in cui il viandante poteva riposare, non importa se soltanto alla meno peggio oppure con tanto di giaciglio e di vivande.

 

La lettera come status symbol

Oggi sembra impossibile ma ai tempi di Giotto e del Boccaccio la lettera era proprio un simbolo di elevato livello sociale, come oggi un’auto di lusso, un abito firmato, l’orologio d’oro di marca. A provarlo ci sono i diversi ritratti rinascimentali in cui l’effigiato, solitamente un mercante (oggi diremmo un uomo d’affari), è al tavolo di lavoro, circondato da oggetti e simboli della sua “arte” e del suo grado, tra cui appunto lettere, sovente molte lettere.

Un simbolo di ricchezza e di prestigio sociale che deve la sua preminenza anche al costo, come per ogni status symbol che si rispetti: un esborso decisamente proibitivo per la maggior parte della gente dell’epoca, visto che occorreva pagare una persona appositamente per portare da una città all’altra, talvolta da un Paese all’altro, un pacchetto di poche lettere legato alla cintura.

Georg Gisze, discendente di una famiglia di mercanti di Colonia poi trasferitasi a Danzica, in un famoso ritratto di Hans Holbein il giovane risalente al 1532, tra lettere e oggetti per scrivere e suggellare lettere (Berlino, Staatliche Museen)

Tra il Duecento e il Trecento, con il rifiorire dei commerci e delle arti e la conseguente nascita di una nuova classe sociale sempre più ricca e potente, quella che poi si sarebbe chiamata borghesia (cioè gli abitanti dei borghi, le città, in antitesi alla maggioranza che abitava nelle campagne), aumentarono anche i bisogni di comunicazione a distanza. E se qualche potente banchiere — di quelli che si arrischiavano a prestar soldi persino ai Re — si poteva permettere di utilizzare propri messi, come facevano i potenti, anche in funzione della riservatezza dei messaggi, poi pensò bene di metterli a disposizione anche della propria clientela o di consentire al messaggero di raccogliere anche le lettere di altri, in modo da dividere un po’ i costi. Mentre altri mercanti, per lo stesso motivo, gestivano in comune queste linee di comunicazione sulle più importanti direttrici europee, solitamente in base alla “gilda” (l’ordine professionale) di appartenenza.

La conseguenza fu un aumento dell’offerta di corrieri sempre più specializzati e la comparsa nelle principali piazze commerciali di nuovi imprenditori della comunicazione: solitamente osti in grado di fornire in ogni momento (o quasi) e a chiunque (persino alle autorità) il corriere necessario a portare una lettera, ricevendo da quest’ultimo il 10 % dell’incasso, la cosiddetta decima. È il sistema detto della scarsella, il sacchetto con il mazzo di lettere legato alla cintura, che s’impose proprio grazie all’incontro fra questi osti dei corrieri e i mercanti, interessati a collegamenti più regolari o almeno a partenze con preavviso di alcuni giorni, che consentivano di ampliare il numero degli utenti e di ridurre perciò le spese delle singole spedizioni.

I corrieri, allenati fin da piccoli alla corsa e alla resistenza, svolgevano il loro lavoro a piedi, a ritmi da record malgrado i tragitti talvolta lunghissimi e resi più impervi da passi montani. Specie sulle grandi distanze l’uomo è infatti in grado di reggere gli sforzi molto meglio del cavallo, che necessita di frequenti soste o di cambi. Gli scarsellieri guadagnavano davvero bene per l’epoca (ad esempio 18 fiorini d’oro per il viaggio da Prato a Barcellona, da eseguire via terra in 21 giorni, 22 d’inverno), specie considerando i vantaggi, ovvero gli extra che ottenevano in rapporto allo sforzo, alla distanza, all’insicurezza delle strade, che sovente erano semplici tracciati, e ad altre avversità: extra che venivano concessi volentieri visto che chi li pagava otteneva come vantaggio che le sue lettere fossero sùbito consegnate all’arrivo, così il corrispondente poteva approfittare delle notizie fresche, mentre le altre lettere aspettavano almeno un giorno.

Un corriere mentre consegna una lettera, da una miniatura: alla cintola è legata la scarsella

Poi, a metà Quattrocento, anche gli scarsellieri cominciarono a convertirsi alla cavalcatura, almeno su percorsi e distanze adatti a un cavallo, o accordandosi per trovare cavalcature fresche. Così, oltre alle lettere, potevano trasportare anche pacchi di merci pregiate, oppure offrirsi come accompagnatori di signori in viaggio, ovviamente facendosi spesare dagli osti a cui portavano i clienti.

E nel Cinquecento mutò anche la lettera, acquisendo l’attuale aspetto privato e interpersonale. Infatti la lettera medievale era ben diversa da quella di oggi: era innanzi tutto comunicazione di dati e avvenimenti, “la notizia” di un tempo in cui la stampa non era stata ancora inventata né tantomeno esistevano i giornali, e gli ambasciatori facevano anche gli “inviati speciali” comunicando al loro principe notizie e pettegolezzi delle varie corti, ovviamente per lettera. Per questo diventava talvolta un evento pubblico; se le notizie che recava erano importanti, non di raro il suo arrivo era accompagnato da scampanii e festeggiamenti.

Una lettera dell’archivio Corsini, disperso negli anni ‘60, in cui appare il “marchio” con cui ogni mercante segnava non solo le sue lettere ma anche i sacchi delle sue merci, perché fossero individuati pure dagli analfabeti (qualche collezionista lo chiama “gilda”, anche se con le corporazioni non c’entra affatto). La lettera, sigillata con spago e ceralacca, venne inviata da Venezia il 15 aprile 1501 a Bartolomeo Corsini “in Londra”; come molte lettere d’affari dell’epoca è in scrittura mercantesca, con abbreviazioni di tipo stenografico per ridurre la consistenza dello scritto e non essere facilmente comprensibile agli estranei.

La nascita della posta

Alla fine qualcuno si rese conto che questa attività poteva essere ancor più redditizia se la si trasformava in un servizio stabile, ben organizzato sulle direttrici più richieste, e aperto a tutti coloro che avevano necessità di spedire lettere e merci: in tal modo se ne poteva aumentare anche la velocità mediante l’impiego dei cavalli, sfruttando le “poste” esistenti e organizzandone di nuove per effettuare il cambio delle cavalcature e anche dei cavalieri. E i primi al mondo che realizzarono quest’idea furono degli italiani, alla fine del Trecento: i Visconti, allora signori della Lombardia e di un po’ d’Emilia. Fu un salto di qualità impressionante: con la tecnica delle poste si scoprì la velocità stradale, addirittura equiparata al volo (per staffetta volando). Se per andare da Milano a Roma i corrieri mercantili ci mettevano in media 11 giorni (5 o 6 solo nei casi più fortunati) con i cavallari alle poste viscontei e poi sforzeschi, e organizzando poste ogni 40 miglia, si riuscì a coprire lo stesso percorso “in 84 hore e meza”.

Fu una novità che nel Quattrocento si diffuse in tutta Europa, a vantaggio sia dei Signori che dei privati, e finì per introdurre il termine posta in molte lingue: postes in Francia, post nei Paesi tedeschi, postage in Gran Bretagna. I cavallari alle poste, fissi o remunerati a termine, che portavano i dispacci da una posta all’altra anche di notte, dopo il 1530 cambiarono nome in mastri di posta e col tempo si fecero sempre più osti-locandieri. Il trasporto effettivo passò ai loro garzoni (poi detti postiglioni) che usavano il sistema della cavalcata, ovvero il viaggio a cavallo ma non di corsa, e talvolta persino a piedi. All’occorrenza era disponibile il cavallaro espresso, o corriere straordinario, un sistema di invio molto costoso, a cui si affiancò ben presto quello relativamente più economico della staffetta, che andava di posta in posta a cavallo e al galoppo massimo.

Ma se i Visconti ne furono gli iniziatori, coloro che seppero diffondere e sfruttare appieno questo sistema furono i corrieri bergamaschi, poi divenuti Corrieri veneti, in particolare quei Tasso la cui stirpe fornì sino all’Ottocento mastri di posta a tutta Europa, con cognomi adattatisi nei secoli alle lingue locali, da Taxis a Tasse.

E soprattutto il nuovo sistema “postale” si dimostrò strategico, tanto che dal Cinquecento anche imperatori, re, papi e duchi ci misero le mani sopra, inventandosi il cosiddetto jus postale, il diritto di trasportare la posta. A quei tempi infatti anche le strade e i fiumi erano proprietà reale o del signorotto locale, a cui era dovuto un pedaggio; di conseguenza solo al re (o a chi per lui) spettava il diritto di utilizzarli anche per il trasporto di lettere e merci. Lo scopo iniziale era solo di controllare meglio questa nuova attività, tanto che in un primo tempo anche lo Stato rimborsava il suo mastro dei corrieri per il servizio ufficiale, lasciandogli inoltre gli introiti delle lettere condannate (a pagare una tassa).

Una delle prime lettere conosciute, risalenti alla fine del 1385, conservate nell’Archivio di Stato di Reggio Emilia, in cui figura l’indicazione “per postas” o “cavallarios postarum” (dettaglio in basso, insieme a una curiosità: la data in cifre romane minuscole).

Ma quando nella seconda metà del Cinquecento il successo della posta-lettere dimostrò che c’era anche da guadagnare, i Signori cominciarono a chiedere ai mastri di posta di pagare se volevano continuare nell’incarico, e in seguito passarono al sistema degli appalti, con tanto di clausole, durata concordata, oneri a carico del mastro e regime di monopolio. In tal modo allo Stato arrivava una nuova, congrua rendita, mentre le corrispondenze ufficiali viaggiavano gratuitamente insieme a quelle di nobili, ecclesiastici, dignitari e tutti coloro che Sua Maestà avrebbe “graziosamente” onorato del privilegio di spedire e ricevere lettere in franchigia. A pagare per tutti erano gli altri, commercianti e privati, ogni volta che spedivano una lettera.

Anche per questo fino a tutto il ’700 il servizio postale rimase alquanto costoso. In pratica la lettera venne a lungo considerata alla stregua di merce, su cui lo Stato imponeva tasse e gabelle a seconda delle proprie esigenze (gli aumenti erano immancabili in caso di guerre) e da cui i trasportatori cercavano di ricavare il maggior utile possibile, approfittando del fatto che agivano in regime di monopolio. Anche se in realtà restò a lungo la molteplicità dei vettori: infatti la rete postale, ultra rapida, era in funzione dello Stato e dell’alta finanza, e perciò attiva solo sui grandi itinerari, con poste ogni 8-10 miglia. Perciò chi doveva spedire una lettera in località fuori strada era costretto a valersi anche delle tante altre occasioni (come si dirà ancora nell’Ottocento) indispensabili soprattutto a livello locale: pedoni, corrieri a comando, vetturini, carrettieri, viandanti, persino girovaghi. A meno che il suo comune, o quello di destinazione, non avesse un proprio incaricato per portare e ritirare le lettere di tutti gli abitanti al più vicino ufficio di posta. Restava comunque un servizio alquanto insicuro, al pari delle strade e dei mari di quei tempi, come mostrano cronache e bandi da tutta la penisola contro i grassatori e gli omicidi di postiglioni: in pratica l’unica garanzia di consegna era data dall’abitudine di lasciar pagare la tassa al destinatario, sempre che fosse almeno un conoscente.

Una lettera settecentesca spedita fuori dai canali postali tramite un espresso, ovvero una persona “espressamente” incaricata, come si legge dall’istruzione in rosso di pugno del mittente “darano al presente espreso soldi vinti cinque”

Il rivoluzionario inizio delle poste moderne

I primi miglioramenti arrivarono nel secolo dei Lumi, soprattutto verso la fine, con la Rivoluzione francese, quando si parlò del diritto dei cittadini — non più semplici sudditi — ad avere servizi più comodi, affidabili e disponibili a tutti. Si cominciò ad aprire uffici di posta anche nei centri minori, chiamando i Comuni a collaborare alle spese. Si stabilirono regole precise per tutte le fasi di trasporto e consegna delle corrispondenze, e soprattutto sull’uso della franchigia. Divennero di sempre maggior uso i bolli postali, per controllare la provenienza e la data di partenza e di arrivo (e perciò accertare eventuali errori d’inoltro) e verificare se la tariffa era stata pagata esattamente dal mittente o se restava da incassare qualcosa dal destinatario. Fu dato impulso alla raccomandazione per offrire maggiori garanzie nella spedizione di titoli, oggetti di valore e anche soldi. In compenso però le tariffe, calcolate come sempre in base alla distanza e alla consistenza, furono aumentate fino a 4-5 volte nell’arco di una quindicina d’anni, ufficialmente o con l’artifizio di abbassare sempre più il peso dei porti.

Furono comunque migliorie che cambiarono addirittura la vita sociale. In un’epoca in cui anche Napoleone per comunicare con i suoi generali non aveva altro mezzo all’infuori della lettera, per quanto inviata con un corriere straordinario (a meno che non si trovasse su una delle non molte linee servite dal cosiddetto telegrafo ottico, ben diverso dal telegrafo elettrico che sarebbe arrivato soltanto a metà Ottocento), la posta svolgeva un ruolo dominante nei rapporti non solo ufficiali e commerciali ma anche umani e culturali. Tanto che i giorni di arrivo della posta — di solito due o tre la settimana — scandivano il tempo, anche in vista dell’incontro e delle quattro chiacchiere di fronte all’ufficio postale in attesa che il direttore chiamasse coloro che avevano ricevuto posta per consegnargliela, o di rivolgere all’impiegato la rituale domanda: Scusi, c’è nulla per me?

La costruzione con il “semaforo” del telegrafo ottico esistente un tempo nei pressi di Altona, in Prussia: i movimenti delle pale creavano combinazioni corrispondenti a lettere, cifre e segni d’interpunzione. Attraverso stazioni situate su case, campanili, torrioni ecc., in cui prestavano servizio uno o due stazionari muniti di cannocchiali fissi, era possibile trasmettere messaggi, esclusivamente governativi, anche a grande distanza. La notizia dell’ingresso di Napoleone a Mosca, partita da Parigi alle 3 pomeridiane del 30 settembre 1812, giunse con questo sistema a Torino alle 7 di mattina del 2 ottobre: un buon tempo se si considera che il telegrafo ottico di notte non poteva funzionare.

Un grosso impulso venne anche da due rivoluzionarie invenzioni dell’epoca: il macadam e la macchina a vapore. Il nuovo tipo di massicciata stradale inventata dallo scozzese McAdam permise infatti di realizzare strade di facile manutenzione, che non diventavano fiumi d’inverno e percorsi accidentati e polverosi d’estate, consentendo così la diffusione della diligenza e servizi regolari di trasporto di passeggeri, merci e posta per tutto l’anno. Mentre la propulsione a vapore diede inizio a trasporti sempre più celeri e regolari prima sulle rotte marittime e in seguito con le strade ferrate.

Malgrado i miglioramenti, spedire lettere per posta restava però complicato. Il calcolo delle tariffe in base alla distanza e al peso e/o al numero dei fogli costringeva chi voleva o doveva pagare l’affrancatura in anticipo a recarsi all’ufficio di posta, per conoscere l’importo dovuto. Di qui la persistente abitudine, almeno con le lettere per l’interno del Paese, di gettarle semplicemente in buca senza affrancarle, tanto più che la tariffa era la stessa sia che a pagare fosse il mittente o il destinatario. Per di più troppe lettere viaggiavano gratis, sia per l’eccessiva larghezza nella franchigia — in Gran Bretagna si sapeva di nobili che venivano addirittura stipendiati da banche o erano stati associati a grandi ditte col solo compito di apporre la loro riverita firma sulle lettere, che così viaggiavano a sbafo! — sia per la possibilità di rifiutare le corrispondenze che, in mancanza di un mittente su cui rivalersi, si risolveva per le poste in un lavoro a vuoto.

Tariffe ancora più care e complesse si avevano poi nei rapporti con l’estero, visto che ogni Stato interessato e ogni trasportatore voleva la sua parte, e sovente non esistevano accordi postali che consentissero di affrancare in partenza, o magari anche solo di conoscere in anticipo il costo della spedizione. Si racconta che quando alla morte del poeta Percy Shelley, annegato nel golfo di La Spezia, sua moglie Mary (famosa per aver creato il mostro di Frankenstein) scrisse una lettera non solo disperata ma anche alquanto prolissa a un amico di Londra; il quale per poterla leggere fu costretto a sborsare 4 sterline e 15 scellini, cifra che a quell’epoca corrispondeva a quasi un terzo dello stipendio annuo di un buon operaio!

La grande Riforma postale inglese

Se qualcuno vi racconta la storiella della ragazza che Rowland Hill vide rifiutare una lettera consegnatagli dal postino e che, alla sua offerta di pagare, gli confidò che in realtà comunicava con il fidanzato attraverso segni convenzionali, che leggeva sulla soprascritta della lettera prima di restituirla al postino, non credetegli! È pura invenzione. O al massimo un aneddoto attribuibile al poeta Coleridge o all’assistente di Hill, Henry Cole. Soprattutto è un modo per svilire la razionalità e i metodi innovativi, degni del più moderno marketing, messi in atto da un educatore di nome Rowland Hill.

Le proteste sui costi e i privilegi postali ovviamente non mancavano, specie nei Paesi più avanzati in cui il progresso industriale aumentava la mobilità anche nei ceti medi e di conseguenza l’esigenza di comunicare a distanza. Ed erano proteste che in Gran Bretagna arrivavano in alto, fino al Parlamento. Fu proprio dopo aver ascoltato le veementi parole del parlamentare Robert Wallace contro gli abusi postali, ed essersi attentamente documentato insieme ai fratelli Edwin, Frederic e Matthew sui vari aspetti della questione, che Rowland Hill giunse a una semplicissima e sconcertante conclusione: visto che persino una lettera da Londra a Edimburgo, per cui si pagava più di uno scellino, in realtà costava alle poste meno di un farthing, un quarto di penny, se tutti avessero pagato — tutti, compresi i nobili, e possibilmente in anticipo — un penny di tassa sarebbe stato più che sufficiente per coprire le spese di una lettera diretta in qualunque località del Regno Unito.

Se poi questa tariffa uniforme per tutto lo Stato si fosse calcolata semplicemente in base al peso, si sarebbero ulteriormente semplificate le cose evitando il ricorso all’ufficio postale anche per la spedizione di plichi. In più, consentendo e favorendo l’affrancatura anticipata, il portalettere “non solo non dovrà fermarsi per farsi pagare le tasse postali ma probabilmente non dovrà neppure attendere l’apertura della porta, poiché ogni casa potrà essere provvista di una cassetta delle lettere e il postino, dopo avercele infilate e aver bussato, potrà passare oltre velocemente quanto glielo consente il suo passo”. Ovvero, un risparmio del 200% anche sui costi di distribuzione!

Queste idee furono pubblicate da Rowland Hill privatamente nel 1837 in un opuscolo intitolato La Riforma postale, sua Importanza e Fattibilità. Naturalmente non piacquero né alle autorità postali, spaventate da una tale innovazione, né a nobili e politici, timorosi di perdere il loro privilegio della franchigia. Ma ebbero subito il consenso e il pieno appoggio dell’opinione pubblica britannica, in particolare di due importanti gruppi sociali: mercanti e uomini d’affari, per il cui lavoro il servizio postale era fondamentale, e riformatori religiosi, soprattutto protestanti evangelici, per i quali la conoscenza era un modo di avvicinarsi alla santità, e la facilità di comunicare era ritenuta indispensabile per diffondere la conoscenza.

Ci vollero due anni di battaglie parlamentari, di campagne giornalistiche, persino di pubblici sberleffi: come quando, sotto gli occhi di rappresentanti della stampa, furono spedite a eminenti personaggi due lettere, una di un solo foglio anche se enorme, che però pagava la tariffa semplice, e una piccolissima ma composta da due fogli e che perciò pagava il doppio dell’altra! Anche la riduzione della franchigia al solo servizio di Stato trovò un’autorevole fautrice nella stessa Regina Vittoria, che si dichiarò disposta a pagare per la sua corrispondenza personale. Alla fine la grande Riforma postale passò — e integralmente — anche se per gradi: quando entrò in vigore, il 5 dicembre 1839, la tariffa uniforme per tutto il Regno Unito era infatti non di un penny ma di 4 pence ogni mezza oncia (15 grammi). Tuttavia il successo fu tale da giustificare fin dal 10 gennaio 1840 la riduzione a un solo penny, come volevano ormai tutti!

 

Il concorso che portò a inventare il francobollo

Per realizzare al meglio la Riforma postale restava solo un problema da risolvere: il pagamento anticipato della tariffa. Oltre a fissare una tassa più elevata per chi pagava in arrivo, occorreva infatti trovare un sistema semplice e pratico per affrancare: se per pagare ci si doveva recare come prima all’ufficio postale, tanto valeva continuare anche a gettare le lettere nelle buche senza affrancare! E se si voleva abituare il pubblico a pagare sempre in anticipo bisognava inventare un nuovo sistema di affrancatura, più comodo e gratificante. Ma quale?

Già nel suo pamphlet del 1837 Rowland Hill aveva proposto di utilizzare a questo scopo “un pezzo di carta grande abbastanza da contenere il bollo e coperto al retro da una cera vischiosa, che con un po’ di umidità il mittente può attaccare al retro della lettera”. In pratica ogni ufficio di posta avrebbe potuto stampigliare il proprio bollo di Porto Pagato su fogli di carta, e metterli in vendita; e il pubblico li avrebbe usati non solo per affrancare ma anche in funzione di sigillo, al retro della lettera, invece della ceralacca o dell’ostia gommata in uso a quei tempi.

Come idea era decisamente ancora vaga: più precisa fu invece la proposta pubblicata a stampa l’8 febbraio 1838 da un libraio scozzese, James Chalmers, in appoggio alle idee di Rowland Hill. Chalmers presentò delle “strisce bollate”, cinque impronte a stampa recanti un disegno e l’indicazione del valore, che dovevano essere “spalmate al retro con una forte soluzione di gomma”, da mettere in vendita “in fogli o singole”. E aveva anche pensato all’annullamento: “per prevenire la possibilità che vengano usate una seconda volta, si dovrebbe imporre ai mastri di posta dì applicare il bollo postale del luogo (come mostrato su uno dei saggi) sulla striscia o sui francobolli”. Già, nell’originale figura proprio il termine postage stamp, francobollo, tanto che a Chalmers si può dire che dobbiamo non solo il francobollo ma anche il nome del nuovo oggetto postale. La proposta fu pubblicata una seconda volta, in forma succinta ma completa di saggi e dell’idea dell’annullamento, sul Post Circular del 5 aprile 1838. Ma Rowland Hill, pur essendone a conoscenza, non volle mai prenderla in considerazione; e Chalmers non figura nemmeno tra i premiati nel concorso ufficialmente indetto per avere idee in proposito.

Uno dei saggi presentati da James Chalmers, che mostra come avesse idee ben chiare sul francobollo e il metodo per annullarlo ancor prima di Hill, e due di Charles Fenton Whiting, uno eseguito col metodo Congreve bicolore e l’altro a rilievo.

A lanciare questo concorso fu il Ministero del Tesoro, il 6 settembre 1839. In palio vi erano un premio di 200 sterline per la miglior idea e uno di 100 per il secondo arrivato; la data ultima di consegna era il 15 ottobre. Arrivarono 2.600 fra disegni, saggi a stampa e semplici suggerimenti, alcuni decisamente bizzarri come quello di James Bogardus e Francis Coffin — che in verità vinsero il primo premio — di un francobollo doppio recante, oltre alla parte gommata con la vignetta, anche una parte bianca con un buco di 18 mm attraverso il quale applicare la ceralacca del suggello. Alla fine si adottarono due diverse soluzioni: una era rappresentata da buste e fogli da lettera già affrancati e pronti per l’uso; l’altra era una “etichetta” (label, come appare scritto sugli stessi fogli dei primi francobolli) che si poteva incollare su qualsiasi lettera, giornale o pacchetto prima di imbucarli.

 

Francobolli, buste e fogli bollati apparvero sei mesi dopo l’introduzione della Riforma postale, il 1º maggio 1840 (in realtà il francobollo da 2 pence fu distribuito dopo, appena in tempo), ma dovevano essere utilizzati solo a partire dal 6 maggio seguente: occorreva infatti lasciare un po’ di tempo alla gente per abituarsi a una tale novità! Qualcuno fece subito dell’ironia sui francobolli, dato che vi compariva l’effigie della giovane Regina Vittoria e per incollarli alle lettere occorreva leccarne il retro! Ma andò molto peggio per buste e fogli bollati, su cui Rowland Hill puntava moltissimo e che proprio per questo aveva voluto illustrare con un’allegoria della Posta affidata al pittore accademico William Mulready: ma l’affollato disegno divenne subito un facile bersaglio per la satira, costringendo dopo nemmeno un anno al ritiro di questi interi postali. Che furono sostituiti da buste con un più semplice francobollo, recante l’effigie reale impressa a rilievo come in una proposta avanzata nel concorso del 1839.

Le prime carte-valori postali generate dalla Grande Riforma inglese. Le prime in assoluto furono le buste parlamentari da 1 e 2 d., apparse il 16 gennaio 1840, riservate ai membri del Parlamento, che non godevano più della franchigia. I primi francobolli (qui il penny black nella versione destinata alla Regina Vittoria, mai posto in uso) apparvero il 1º maggio insieme ai fogli-lettera e alle buste postali illustrate da William Mulready, che con il loro ridondante disegno — la Britannia che con la nuova posta diffonde la sua industria e i suoi commerci in tutto il mondo e insieme consente a tutti di comunicare e acculturarsi — attrassero subito gli strali satirici degli umoristi inglesi.

Un successo a macchia d’olio

Le notizie sulla rivoluzionaria Riforma postale inglese e sugli ottimi risultati che ottenne quasi subito varcarono immediatamente i confini del Regno Unito. La tariffa uniforme per qualsiasi destinazione dello Stato, da calcolarsi soltanto in base al peso, e quel pezzo di carta gommato chiamato francobollo che solo una tariffa semplificata rendeva utilizzabile, furono adottati già nel 1843 dal Brasile e da due cantoni svizzeri, Zurigo e Ginevra, nel 1845 dal cantone di Basilea, nel 1847 dalle isole Mauritius (soprattutto per dare un tocco di modernità agli inviti per il ballo del Governatore!) e poi via via e sempre più velocemente da tutti gli altri Paesi e rispettive Colonie.

In realtà agli inizi vi fu qualche titubanza: alcune grandi nazioni, come l’Impero Austro-Ungarico, preferirono mantenere tariffe differenziate in base alle distanze, anche se ridotte a soli due o tre “raggi” per evitare le eccessive complicazioni del vecchio sistema. E negli Stati Uniti, prima di affrontare l’emissione di francobolli, si favorirono test a livello locale, con francobolli e interi sovente molto artigianali messi in corso da alcuni postmaster.

In Italia quasi tutti gli stati e staterelli che allora affollavano la penisola adottarono le tariffe uniformi e il francobollo tra il 1850 e il 1852, in gran parte sotto lo stimolo di una convenzione postale promossa dall’Austria fra gli stati che rientravano nella sua orbita, ovvero il ducato di Parma, quello di Modena, il granducato di Toscana e lo Stato pontificio, oltre naturalmente al Regno Lombardo-Veneto: e lo Stato della Chiesa mantenne come l’Austria tariffe differenziate per tre “distanze”. Invece i parsimoniosi piemontesi del Regno di Sardegna fino al 1857 previdero l’uso del francobollo solo per le lettere da gettare in buca: per quelle consegnate a un ufficio postale perché sprecare quei preziosi pezzetti di carta con l’effigie di Sua Maestà quando si poteva benissimo continuare a indicare l’avvenuto pagamento con il semplice bollo P.P., Porto Pagato e la cifra incassata manoscritta al retro?

Quanto al Regno delle due Sicilie le novità postali arrivarono solo molto più tardi soprattutto a causa della diffidenza borbonica verso ogni innovazione: il 1° gennaio 1858 nei domini di qua dal faro (Campania, Abruzzi, Puglia, Calabria e Basilicata) e l’anno seguente in Sicilia. Ma rimase il calcolo delle tariffe in base al numero dei fogli, e soprattutto si prese ogni precauzione affinchè con i francobolli non si potesse comporre l’odiato tricolore (i valori del Regno di Napoli furono tutti stampati in rosa) e la “sacra effigie di Sua Maestà” che figurava sui valori siciliani non venisse deturpata dall’annullo (che venne appositamente realizzato a forma di ferro di cavallo in modo da colpire solo le scritte).

Un esemplare di ciascuna delle prime emissioni degli Antichi Stati italiani

Gli accordi internazionali

A metà Ottocento la posta ormai non era più sola come mezzo di comunicazione a distanza. Nel 1837 Samuel Finley Breese Morse aveva inventato il telegrafo elettrico, con i suoi segnali brevi e lunghi e l’apposito codice che prese il suo nome. La prima linea telegrafica era stata inaugurata il 24 maggio 1844 fra Washington e Baltimora e già tre anni dopo prendeva il via la prima in Italia, fra Livorno, Pisa e Firenze, a quell’epoca ancora città del Granducato di Toscana. Fra il 1850 e il 1853 arrivarono anche tutti gli altri Stati italiani così che quando agli inizi del 1861 venne unificata, l’Italia disponeva di 7.800 km di linee e di 250 uffici; ma era una rete ormai superata, con sistemi incompatibili fra loro e 2 milioni di lire annui di spese contro 1.400.000 di incassi. Senza dubbio come celerità di comunicazione il telegrafo era imbattibile, ma i costi di spedizione erano decisamente elevati, e il pubblico vi ricorreva solo in casi estremi; anche perché le tariffe erano a parola e per risparmiare si ricorreva a messaggi al limite del comprensibile, senza articoli e con il minimo indispensabile di preposizioni. Senza contare che a quei tempi una lettera fra Milano e Firenze arrivava normalmente in giornata, grazie alla ferrovia e ai numerosi turni di servizio, e anche fra i capi estremi della penisola la posta — pur dovendo viaggiare in battello, vaporiera o diligenza — non impiegava più di due o tre giorni!

Ma il problema maggiore — il traffico postale con l’estero — restava ancora insoluto. Qualche passo avanti era stato fatto fin dalla prima metà dell’Ottocento con le convenzioni postali, accordi bilaterali stipulati normalmente con gli Stati limitrofi e altri coi quali vi era un maggior traffico, i quali spesso consentivano di usufruire di accordi simili firmati dai due contraenti con altri Stati. Grazie a questa rete di convenzioni era possibile affrancare lettere e stampe dirette in quasi tutti i Paesi, e talvolta anche raccomandarle. Ma occorreva comunque rivolgersi agli uffici postali prima di spedire, per sapere se era possibile affrancare o no, per conoscere l’esatta tariffa e la consistenza dei porti (che variavano da convenzione a convenzione) e per scoprire quale fosse la via più conveniente o più rapida nel caso — non infrequente — in cui erano possibili più instradamenti.

Ciascun avviamento aveva infatti prezzi, tempi e modalità d’invio differenti, a seconda della convenzione o della serie di convenzioni che lo prevedeva. Ad esempio nel 1863 per spedire una lettera in Svezia un italiano poteva scegliere fra la via di Svizzera (1 lira ogni 10 g), la via di Francia (1,40 ogni 7 grammi e mezzo) e la via d’Austria (1,25 ogni 15 grammi) e la decisione poteva essere influenzata dalla località di partenza. Nello stesso anno per inviare una lettera in Turchia si poteva usare la via di Trieste (da 85 cent. a 1,35 per ogni 15 g a seconda della località), la via di Brindisi e Alessandria (da 80 cent. a 1,10 per ogni 10 g sempre a seconda della località), i piroscafi postali austriaci (da 45 cent a 1 lira ogni 15 g a seconda dei porti toccati) e i piroscafi postali francesi (tariffa fissa 80 cent. ogni 7 grammi e mezzo); ma ogni avviamento raggiungeva solo un certo numero di località, e per le città dell’interno al destinatario toccava di solito pagare la sua parte di tassa. Perché, come per tutte le nazioni con cui non esistevano convenzioni postali neppure tramite altri Paesi, la soluzione era da secoli una sola: affrancare (ed era obbligatorio) per la parte di percorso coperta da convenzioni o da battelli mercantili, e lasciare che il destinatario pagasse per la restante tratta. Insomma, avere un corrispondente in certi Paesi lontani poteva procurare dei veri rompicapo.

Un manifesto postale italiano del 1861 con le tariffe della lettera per i vari Paesi, talvolta corredate da tabelle con le singole localit. Un vero rompicapo, corredato da un gemello riservato alle stampe.

La soluzione arrivò nel 1874, sulla scia degli eccellenti risultati delle Leghe postali create da Austria e Paesi tedeschi: la creazione dell’Unione Generale delle Poste, un’unica convenzione postale multinazionale sottoscritta a Berna il 9 ottobre 1874 da Austria, Belgio, Danimarca, Egitto, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Romania, Russia, Serbia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria (la Francia firmò in ritardo, per problemi di budget), in base alla quale i Paesi firmatari formavano dal 1° luglio 1875 “un solo territorio” per quanto riguardava il traffico postale e dei vaglia. In tal modo si potevano fissare tariffe e regole uniformi per tutti i paesi aderenti, qualunque fosse il percorso o il mezzo impiegato. Un’idea fortemente innovativa, per quanto applicata già da anni nel settore del telegrafo. Anche in questo caso il successo fu immediato e l’apprezzamento unanime: il numero dei Paesi che chiesero di aderire al trattato fu tale che già nel 1878 si decise di adottare una nuova e più calzante definizione: Unione Postale Universale.

Una lettera per Montevideo spedita da Bogliasco (Genova) nel settembre 1874, quando esistevano solo convenzioni postali bilaterali. Non essendovi accordi con l’Uruguay, neppure da parte di paesi che avevano convenzioni con l’Italia, il mittente era obbligato ad affrancare preventivamente, ma la spesa copriva soltanto il trasporto, in questo caso via Francia, fino al porto di sbarco in Sud America (il bollo P.P. significava in questo periodo Porto Parziale); l’ultima parte del tragitto doveva essere pagata dal destinatario, come risulta dal bollo 10 centimos apposto in Uruguay.

Il mito del progresso

Probabilmente il più importante fenomeno di fine Ottocento fu il progresso, o meglio la tensione al progresso tecnico, sociale, artistico. Gli inventori e i nuovi brevetti non si contavano, così come fiorivano ovunque Esposizioni più o meno internazionali per mostrare le continue novità, con grande successo di pubblico e premi e medaglie per tutti.

Al momento in cui nasceva l’UPU la lettera ormai non era più sola nel panorama postale: i primi ad affiancarla erano stati, già da molto tempo, i giornali e gli stampati, ai quali erano riservate tariffe più o meno contenute sia perché non contenevano un messaggio personale sia per favorire la diffusione della cultura (anche se in diversi Stati si osteggiavano poi le idee politiche provenienti da altri Paesi tramite l’imposizione di una tassa sulle “gazzette estere”). Poi erano arrivati i manoscritti e i campioni di merci, cui si era riservata una tassa ridotta per evitare che fossero penalizzati dal peso. E si era affermato il vaglia postale, derivato dalle reconnaissances napoleoniche, un mezzo finalmente virtuale e perciò sicuro per inviare denaro, riservando la raccomandazione e l’assicurazione all’invio di titoli e preziosi.

Ma è a partire dal 1869 che il panorama postale si arricchì sempre più e sempre più velocemente di nuovi oggetti postali, di nuovi servizi, di nuove possibilità dovute alla tecnologia. A dare il via fu la cartolina postale, un pratico cartoncino preaffrancato, adatto per comunicare notizie brevi e non troppo riservate senza problemi di buste e sigilli, e a un prezzo decisamente favorevole: metà di quello di una lettera. Compresa la versione con risposta pagata — in pratica due cartoline unite — che facilitava le richieste d’informazione e gli atti di cortesia, specie nei rapporti con l’estero, non essendo possibile allegare il francobollo per la risposta.

Poi arrivarono le Casse di Risparmio postale e i conti correnti postali, entrambi inizialmente osteggiati con vigore dalle banche, che non potevano certo competere con la capillarità degli sportelli di cui disponeva la Posta. E nel 1881 fu la volta, in Italia e in diversi altri Paesi, del servizio dei pacchi postali, che consentiva finalmente l’invio senza problemi di oggetti e merci — cosa fino ad allora possibile solo tramite ferrovia, navi e spedizionieri privati — anche nelle località più sperdute. Servizi a denaro e pacchi postali ebbero un’importante funzione di sviluppo economico e sociale: uno sviluppo a cui contribuirono anche diversi oggetti postali a tariffa ridotta e alcuni servizi creati a cavallo del nuovo secolo, dalla riscossione crediti alle fatture commerciali aperte, dalle cedole di commissione libraria alle corrispondenze puntinate dei ciechi.

Ad ampliare il panorama postale, in particolare in fatto di servizi accessori, sino ad allora limitati a raccomandazione, a assicurazione e ricevuta di ritorno, fu proprio il progresso tecnico che caratterizzò la fine dell’800 e tutto il secolo seguente. Nel 1889 il crescente interesse anche in Italia per le vendite per corrispondenza portò a introdurre la spedizione contro assegno, mediante la quale il plico veniva consegnato al destinatario solo se pagava la somma indicata sulla busta. E la stampa in policromia, anche se agli inizi necessitava di almeno dieci passaggi in macchina, fece la fortuna della cartolina illustrata e del cartoncino d’auguri.

Soprattutto la posta utilizzò sin dall’inizio tutti i mezzi possibili offerti dalla tecnologia per accelerare i servizi e renderli più sicuri. Dalla bicicletta, sùbito utilizzata dai fattorini telegrafici e poi per il servizio espresso, fino alla posta pneumatica, con le lettere inserite in cilindri di latta che correvano sospinti dall’aria compressa dentro tubi posti sotto le strade e collegati agli uffici postali e telegrafici. E non appena gli aerei e i dirigibili dimostrarono di non essere solo oggetti per spettacoli d’aviazione, la posta iniziò a utilizzarli con sempre maggior impegno. Così come aveva fatto con le automobili e gli autobus, favorendone il progresso e la produzione al punto che furono chiamate corriere (femminile di corrieri) le vetture che facevano servizio pubblico trasportando gente e posta fra le località non servite dalla ferrovie al posto delle vecchie diligenze.

Talvolta si tentarono anche soluzioni degne di Jules Verne. Ai tempi in cui non erano ancora possibili linee aeree regolari sulle rotte nord-atlantiche, per risparmiare qualche giorno di viaggio si catapultavano gli aerei dalle navi, una volta arrivate a distanza utile dalla costa. Per raggiungere isole di difficile approdo dopo i piccioni viaggiatori si tentò persino l’impiego di razzi. Germania e Spagna sperimentarono anche l’impiego postale dei sommergibili, mentre in Palestina durante la lotta per creare lo stato di Israele si utilizzarono persino i carri blindati. Ma la palma dell’insolito spetta all’Olanda e alle sue “cassaforti galleggianti” usate nei collegamenti con le Indie: in caso di naufragio si staccavano automaticamente dal ponte della nave e restavano a galla ululando e lanciando razzi.

Fra le novità tecnologiche ve n’era anche una mezza italiana e mezza americana, il telefono, che a fine Ottocento era visto solo come un’alternativa al telegrafo soprattutto in fatto di comodità. Naturalmente in quasi tutti i Paesi il telefono venne affidato alla poste, come in seguito la radio e la televisione, e in alcuni casi ne risultò un servizio pubblico utilizzabile con tanto di bollettini e carte telefoniche. Anche in Italia l’uso da parte dei privati restò a lungo limitato, malgrado fosse disponibile già nel 1892, a causa dei problemi di collegamento e di costo; in pratica solo ditte e professionisti, oltre alle famiglie più ricche, se lo potevano permettere. Soltanto nel secondo dopoguerra, a partire dal boom economico degli anni ’50-60, ne iniziò davvero la diffusione.

Ma le innovazioni erano anche a livello di idee. Come il buono risposta internazionale, che dal 1906 consentì di inviare ai corrispondenti esteri l’equivalente del francobollo per affrancare la risposta. O l’avviso d’imbarco, per sapere su che nave viaggiasse la lettera o il pacco inviato oltremare. Per finire con il fonoposta, che l’Argentina propose fin dal 1939 per l’invio di messaggi incisi su disco.

 

Le nuove frontiere della posta

Oggi, nell’era dell’elettronica, molte delle cose che un tempo affascinavano per la loro audacia e modernità fanno semplicemente sorridere. Dopo il cavallo e la diligenza, i piroscafi e i treni, la bicicletta e l’aereo, oggi anche la lettera usa i cavi del telefono e i satelliti per viaggiare più in fretta: e con il fax arriva istantaneamente a destinazione, anche se in copia. Il tutto in una girandola d’innovazioni continue, che ha travolto non solo l’ormai decrepito telegrafo, usato quasi solo per messaggi ufficiali, d’auguri o di condoglianze, ma persino servizi più recenti come il telex: solo negli anni ’80 ci voleva la raccomandazione per ottenerlo, negli anni ‘90 non lo voleva più nessuno e gli apparecchi formavano cataste nei magazzini postali, e oggi chi se ne ricorda più?

Non solo le Poste erano sempre all’avanguardia nell’impiego di nuovi mezzi e tecnologie, ma spesso ne stimolavano il progresso. Come nel caso dell’automobile, che a cavallo del Novecento era considerata solo una macchina da competizione o una vettura da diporto, e in cui invece le Poste vedono subito “un più celere mezzo di trazione pel trasporto degli effetti postali”. Per questo dopo un primo impiego in qualche città per il servizio di levata e trasporto della posta, nel 1908 indissero un “concorso pel servizio delle automobili nel servizio postale rurale” che fu vinto dalla SPA di Torino con un omnibus (dal latino per tutti; in seguito la desinenza bus del dativo diventerà un sostantivo!) con motore da 30 cavalli, 15 posti, ripostiglio per la posta, costo 15.500 lire. Era il debutto della corriera (non per nulla femminile di corriere), un mezzo che ancor oggi collega molti paesi alla città più vicina.

La parte del leone in questi ultimi decenni l’ha fatta il telefono. L’introduzione della trasmissione digitale e via satellite, accompagnata dall’impiego di linee a fibre ottiche, di centrali telefoniche elettroniche e del sistema di selezione a frequenze, ha trasformato la rete telefonica in un sistema telematico mondiale, in grado di fornire i più disparati servizi audio e video, mentre i telefoni cellulari consentono di avere in ogni momento il mondo sottomano, cariche permettendo. Creando una concorrenza che nell’ultimo quarto del Novecento ha coinciso con una involuzione della posta causata — soprattutto in Italia — dalle stesse finalità sociali che un tempo l’avevano fatta progredire. L’adozione di tariffe “politiche” inferiori ai reali costi di gestione, con il conseguente deficit che, abbinato alle contraddizioni e alle lentezze della burocrazia e a un sistema gestionale legato più ai partiti che alle regole del mercato, ha influito negativamente sul servizio, finendo per disincentivare il pubblico dall’uso della posta.

Tutto questo ha portato a ripensare completamente la posta, il cui ruolo nella società resta importante ma non più centrale come ancora mezzo secolo prima, e comunque non più tale da giustificare il diretto impegno dello Stato in termini di garanzia sulle comunicazioni. Di qui una nuova evoluzione della posta che è quasi un ritorno alle origini: la privatizzazione delle Amministrazioni postali, trasformate in Società per azioni, e una progressiva caduta del monopolio postale, sostituito dalle leggi di mercato. Con la liberalizzazione del mercato postale, se da una parte si è ottenuta una semplificazione tariffaria e di servizi da far concorrenza alla riforma di Rowland Hill, si è avuta d’altro canto una ricerca di innovazioni e soluzioni tecnologicamente d’avanguardia che hanno coinvolto tutti gli aspetti del servizio: dalla raccolta della posta alla distribuzione, dai francobolli alla bollatura, dagli uffici postali alla promozione del servizio.

È una trasformazione ormai attuata in molti Paesi che sta mostrando come la posta possa anche ritornare un servizio efficiente e affidabile se prevede strutture e strategie imprenditoriali, competitive, marketing-oriented, all’altezza delle reali esigenze del mercato e del pubblico. E poco importa se questo produce uno spostamento dell’interesse centrale della posta dal settore delle corrispondenze a quello bancario; dopotutto è nel suo DNA, arriva da quei mercanti-banchieri che ne furono i precursori all’epoca dei Comuni.

La posta è entrata nel terzo millennio con diverse incognite ma anche con una doppia certezza: che nessuna nuova tecnologia riuscirà mai a trasportare diversamente plichi e pacchi, e che ancora dopo duemila anni verba volant, scripta manent. Come memoria personale (ci pensino i giovani che, usando solo telefono, sms e e-mail, rischiano di restare senza ricordi dei loro anni più belli) e come documentazione.