A tutta inerzia di Franco Filanci (SdP 21 NS)

Non tutti i mali vengono per nuocere; detti e proverbi tornano sempre comodi per cominciare un discorso, anche in tempi di informatica, globalizzazione e Covid 19. A seguito del coronavirus, e ignorandone per un attimo gli effetti più tragici, si avverte infatti che nelle città si respira meglio, che piante e animali si riappropriano dello spazio, che dopo il primo sconcerto la gente riscopre la casa, la calma, e l’importanza della scienza e di chi la pratica. Beppe Severgnini sul Corsera ha persino scritto che sta finendo l’era del dilettante, quella in cui chiunque è titolato a dare giudizi e a comandare visto che “uno vale uno” e dove a contare è soltanto l’onestà, come se non esistessero imbecilli onesti e se la gente quando sta male si facesse visitare dal commercialista, dal salumiere o dal primo che passa, basta che si presenti bene.

Ma posto che sia davvero aumentata la considerazione del pubblico e dei politici (alcuni) per gli aspetti scientifici e la razionalità, all’atto pratico è davvero arduo veder circolare idee, possibilmente intelligenti, sulla ripartenza di cui si va ora cianciando a tutto spiano. Gli effetti del coronavirus sono infatti imponenti e ancora tutti da valutare, sul piano umano e sociale come su quello economico, con effetti del tutto imprevisti come il tracollo fino al sottocosto del prezzo del petrolio perché il lockdown ha ridotto al minimo i consumi e la richiesta ma non la produzione dell’oro nero, e in alcuni paesi produttori ormai non si sa più dove metterlo.

 Tutti parlano di ripartire, molti anche della necessità di farlo in modo nuovo, conseguente alle mutate condizioni. Ma nessuno dice come. E il timore è che tutto torni come prima, e quindi peggio. Perché quella normalità alla quale tutti vogliamo tornare in realtà non è più né praticabile né sostenibile, a causa di cambiamenti già in essere in precedenza e venuti in piena evidenza in questi mesi. A cominciare dalle diseguaglianze economiche e sociali originate dal passaggio fra rivoluzione industriale e rivoluzione digitale degli ultimi vent’anni e dal suo effetto riscontrabile persino sulla cultura e le abitudini quotidiane. In pratica squilibri di reddito, di sviluppo, di formazione e capacità professionali, di educazione, di conoscenza che non solo alimentano lo scontento del ceto medio ma cambiano gli scenari di molte attività.

Tra cui la filatelia.

Il mondo del collezionismo filatelico è profondamente mutato negli ultimi decenni. Tutti se ne sono accorti più o meno consapevolmente, ma nessuno ha affrontato il problema per capire il come, quando, perché di tale mutazione. Al massimo interventi, scritti, congressi si sono limitati alla superficie, concentrandosi sulle nuove emissioni e le modalità con cui vengono fatte e strafatte, non solo in Italia ma persino in paesi di antiche tradizioni postali. Dibattiti sacrosanti, s’intende, purtroppo fonti solo di recriminazioni e di proposte magari applaudite ma mai portate avanti, a causa del disinteresse per la filatelia fuori del mondo filatelico ma anche, forse soprattutto, dell’amatorialità e dell’individualismo che da sempre contraddistinguono il pianeta collezionismo. Un pianeta in cui tutto va avanti solo alla speriamo bene, per inerzia.

Pare incredibile, ma nessuno si è mai nemmeno posto il problema di analizzare seriamente e in profondità la natura stessa del collezionismo filatelico e le motivazioni che ne sono alla base, per poi metterle in relazione con le modalità che la filatelia usa per presentarsi sulla scena pubblica, soddisfare la passione e l’attività dei suoi fan, promuovere il proprio mercato e cercare nuovi adepti. Nessuno l’ha mai fatto, neppure gli operatori commerciali o le loro associazioni di settore, malgrado questa sia una basilare regola di marketing: ci si è sempre lasciati andare al solito trantran, nella speranza di tornare presto a quel “radioso passato” fatto di maree di collezionisti e di favolosi guadagni, del quale però nessuno ha mai verificato la reale consistenza e veridicità.

Proviamo allora ad esaminare, per quanto in modo estemporaneo, quale sia la situazione attuale del collezionismo filatelico nelle sue varie espressioni. A cominciare dalla domanda basilare: perchè si collezionano o si dovrebbero collezionare i francobolli?

Politici e vip del settore amano dire che i francobolli insegnano varie cose, in primis la geografia, la storia e l’abitudine all’ordine (il che dà per sottinteso che la filatelia sia essenzialmente roba per ragazzini). E in tempi di wikipedia e skype, di documentari tv a gogò e di comunicazione all’insegna dell’esibizionismo, qualcuno può davvero pensare che un francobollo – posto e non ammesso che gli capiti sottomano – possa indurre qualcuno a cercarne altri per fame di conoscenze storiche e geografiche o per autogratificazione?

Un tempo si diceva che la filatelia è l’hobby dei re, con riferimento ai sovrani britannici, ai principi monegaschi o al presidente Franklin Delano Roosevelt: e un tempo, fin verso metà Novecento, effettivamente la borghesia tendeva a imitare la nobiltà e i potenti. Ma qualcuno al giorno d’oggi pensa davvero che la gente veda i personaggi reali e i potentati come modelli da seguire e non solo come argomento da gossip? Gli idoli da imitare oggi sono altri – divi, calciatori, cantanti, ecc. – ma con l’aspirazione a emularne gli incassi, e solo di conseguenza le spese. E comunque costoro fanno di tutto, tranne che collezionare francobolli.

E c’è chi continua a tirar fuori, in modo più o meno esplicito, il concetto di buon investimento, spesso giocando sulle cifre senza tener conto del mercato effettivo e della realtà valutaria del momento (le 100.000 lire del 1970 erano ben diverse dalle 100.000 lire del 1995). Ma vi pare possibile che qualcuno ci creda ancora, dopo gli “aggiustamenti” delle quotazioni degli ultimi tempi e tenendo conto del trend tutt’altro che positivo del collezionismo? Trend fra l’altro dovuto non solo al numero calante di appassionati ma anche al folle incremento di francobolli collezionabili, che finisce per rendere monumentali i cataloghi e soprattutto ridurre il numero di collezionisti dediti a un medesimo settore.

E allora perché si raccoglievano e si raccolgono tuttora i francobolli e i loro colleghi postali nuovi, usati e su busta? Bella domanda. La prima risposta è ovvia: perché in molti sono portati per natura al collezionismo, non importa di che cosa. La seconda, altrettanto ovvia, è che i francobolli sono più pratici da collezionare non solo di libri, vini e automobili ma persino delle monete. La terza – che però valeva fino a vent’anni fa – stava nell’essere un oggetto familiare, che capitava sottomano ogni giorno, e che perciò era facile iniziare a mettere da parte, e poi voler completare, arricchire, e via dicendo. Quarta e forse più importante risposta è che in quei quadratini di carta multicolori  e in quelle corrispondenze postali a cui erano applicati vedevamo qualcosa di particolare – storico, ufficiale, artistico, personale – che ci invitava a raccoglierli per realizzare qualcosa di esclusivo, rappresentativo dei nostri interessi e della nostra cultura, storia, individualità: insomma un’espressione della nostra abilità e intelligenza, una scommessa con noi stessi. La motivazione che sono soldi ben spesi, visto che di solito qualcosa si recupera sempre, oltre che applicabile a tante altre forme di collezionismo, può considerarsi come una giustificazione assolutoria dall’accusa di sperpero: se si fossero spesi per andare in vacanza o a vedere una partita non ci sarebbe stato altro che il godimento immediato.

Ultimo argomento da considerare: il parco filatelisti. Ovvero chi e come sono i collezionisti di francobolli e di materiale postale? In mancanza di dati effettivi, che nessuno ha mai neppure cercato, si può solo ragionevolmente ipotizzare due grandi classi, ciascuna divisa in due categorie. La prima comprendente un 10 per cento scarso di collezionisti con buone o grandi possibilità economiche, equamente diviso tra veri appassionati e semplici esibizionisti, tutti comunque clienti quasi esclusivi di aste e grandi mercanti. La seconda con oltre il 90 per cento dei collezionisti, appartenenti soprattutto al ceto medio (proprio quello oggi in crescente difficoltà), solo in parte dediti a un approfondimento delle loro raccolte, che incrementano con piccoli e medi acquisti presso la normale rete commerciale, ai convegni e ora sempre più tramite il web.

Quindi non solo un doppio e variegato target ma soprattutto un doppio e molto disomogeneo mercato, attualmente in forte evoluzione. Una situazione di cui nessuno tiene conto e che invece è oggetto di una radicale evoluzione, col rischio di trasformarsi in semplice antiquariato.

La filatelia, la storia postale e il collezionismo tematico presentano tuttora validi motivi d’interesse ed enormi spazi operativi per tutti, come mostrano anche gli articoli di questa rivista. Ma la comunicazione al pubblico deve essere aggiornata alle nuove, reali condizioni socio-economiche e culturali. Ad esempio puntare troppo su classici, rarità e qualità rischia di allontanare, anziché allettare, gran parte degli appassionati, quella che fra l’altro rappresenta una base consistente della piramide collezionistica, e quindi dell’ampiezza e del valore del suo mercato.

La filatelia è passione e fantasia. Che oggi anche tutti gli interessati – collezionisti e operatori commerciali – devono mostrare di avere. Abbandonando l’inerzia praticata finora.