Il silenzio assordante che circonda quanto vado scrivendo specie negli ultimi tempi in volumi, articoli ed elzeviri mi sta dando da pensare. Dov’è che sbaglio? Non certo nel modo di esprimermi. Una lunga carriera nel mondo della comunicazione, prima come copywriter e art director e poi come editorialista, mi assicura una discreta certezza di saper trasformare le mie idee in scritti chiari e comprensibili, in un italiano attuale ma senza inutili anglicismi. E non certo sui temi trattati. Oltre mezzo secolo di navigazione nel mare magnum della filatelia dovrebbe garantirmi una certa padronanza della materia, del mondo che le sta intorno e delle relative problematiche.
Eppure quanto vado scrivendo non suscita mai reazioni, non dico positive o negative, ma nemmeno una semplice citazione, magari generica, tipo “Un tale ha scritto che...” e breve richiamo. Forse è una tradizione ereditata dal Quarantennio tra monarchia, fascismo e prima DC, in cui era più salutare non esprimere opinioni. Persino nelle recensioni – che pure avrebbero il preciso compito di segnalare se valga o meno la pena di leggere un certo libro e perché – in filatelia non si danno quasi mai giudizi né segnalano novità, errori d’impostazione o imprecisioni, ma ci si limita a segnalarne il contenuto e al massimo a concludere con un vacuo e anodino invito all’acquisto. Il massimo di reazione che ho ottenuto è la dichiarazione che un certo mio articolo merita di essere letto, anche se risulta faticoso da leggere; in pratica un invito a starne alla larga per non compromettere la sanità delle proprie meningi.
Eppure tra i vari concetti espressi ad esempio nel capitolo uno, quello ‘esplicativo’, del Maillennial ve n’è uno che giudico fondamentale per la filatelia, e che non mi risulta sia mai stato finora esplicitato, almeno nel modo dovuto (e nemmeno commentato, se non dal mio editore, ma naturalmente in privato). Ovvero quel “mix senza paragoni” fra mercato e cultura che è la filatelia.
A pensarci bene si tratta di un aspetto praticamente esclusivo e fondamentale del collezionismo, di quello di francobolli in particolare a causa della parte ufficiale e normativa che ne sta alla base e dell’ampiezza del fenomeno dopo un secolo e mezzo di crescente diffusione e attivismo. Sia la filatelia che la cosiddetta storia postale dei filatelisti (la branca postale della storia delle comunicazioni è tutt’altra cosa, non tenendo necessariamente conto dell’aspetto collezionistico) sono in effetti la combinazione di due elementi nettamente diversi e persino contrastanti: la cultura e il mercato, o più precisamente una disciplina storica e il semplice passatempo. Una combinazione che dà origine a notevoli problemi quando uno dei due elementi prevale sull’altro finendo per ridurre l’appeal della stessa filatelia a cosa di scarso interesse.
Il mercato e l’aspetto venale o esibizionistico delle carte-valori postali sono un dato di fatto sin dagli inizi della filatelia; rappresentano il frutto quasi immediato del successo del francobollo a livello mondiale, della sua facilità ad essere reperito e raccolto, e insieme della rarità di certi pezzi di cui vi era stato un ridotto uso postale o della cui emissione non si era avuta notizia al tempo della loro circolazione, magari in luoghi sperduti. Il tentativo di sminuire o persino demonizzare il piacere del possesso che ne sta alla base è non solo assurdo ma persino controproducente sul piano umano e dell’estro individuale, scontrandosi con il concetto stesso di collezionismo. Ma altrettanto e persino più negativa è l’esasperazione degli aspetti mercantili del francobollo, non solo attraverso le valutazioni cosiddette di mercato, reali o personali che siano, ma soprattutto con un’esaltazione dei pezzi pregiati e della qualità che finisce per ridurre il francobollo a una semplice figurina, senza altro appeal oltre a quello di essere più o meno rara e in condizioni più o meno ideali. Con la Crocetta napoletana allo stesso livello del Feroce Saladino o del biglietto di qualche storica finale di calcio.
L’aspetto culturale del francobollo è anch’esso un dato di fatto sin dagli inizi della filatelia, legato com’è alla seconda rivoluzione postale dell’Ottocento, quella grande Riforma postale inglese che rese più semplice e abbordabile la comunicazione a distanza, favorendo così non solo i commerci e la vita sociale ma soprattutto il progresso. Un progresso, anzi una serie di progressi che si evidenziano nello stesso francobollo attraverso la scelta dei temi, delle immagini, delle tecniche produttive e dei valori scelti dalle Amministrazioni in base alle politiche e al marketing del momento. Negare questo valore storico, sociopolitico o artistico che un francobollo può possedere risulta a sua volta assurdo oltre che controproducente, riducendolo a un pezzetto di carta non sempre più godibile di una figurina ma certamente più costoso, e che a livello di amici e parentado non offre motivi né di conversazione né di soddisfazione. D’altro canto esasperare l’aspetto culturale, magari approfondendo a dismisura l’esame di un aspetto storico, di un servizio, di una tematica o di un tipo di bollatura, finisce per risultare stucchevole fuori dell’ambiente strettamente collezionistico, e persino al suo interno. Dando al francobollo l’immagine di oggetto da collezione destinato a pochi impallinati, magari noiosi e spocchiosi, che non hanno niente di meglio e di più attuale da fare.
Come ho detto, la filatelia è un impareggiabile mix tra mercato e cultura, tra passatempo diffuso, eterogeneo, ormai internazionalmente radicato grazie anche a un’ampia rete commerciale dedicata, e campo di analisi, studio, ricerca sul vasto, complesso, attualissimo mondo della comunicazione umana. Una dicotomia soltanto apparente, anzi fruttuosa se i due elementi convivono perfettamente alla pari, ciascuno operante al meglio nel suo campo senza invadere più di tanto quello altrui.
Una ideale convivenza che purtroppo non è dato ritrovare granché dalle nostre parti. Anche perché gli attori della commedia filatelica hanno un che di pirandelliano: sono personaggi intriganti ma ancora in cerca d’autore. Recitano a soggetto su un copione di banalità, faciloneria e incongruenze. Ma vi pare possibile che dopo un secolo e mezzo di filatelia tutto vada ancora avanti in base a improvvisazioni personali, senza precise strategie basate su dati oggettivi, in attesa di un Godot generoso e miracoloso che risolva il problema?
A livello commerciale non si è ancora capito – a ciò che è dato vedere – che il mercato filatelico non è uno solo, ma sono vari e molto diversi, da definire in base alle disponibilità economiche, ai possibili interessi collezionistici, al livello socioculturale dell’interessato. E di conseguenza occorre studiare e usare una comunicazione, iniziative e “offerte” differenti a seconda del settore di mercato di specifico interesse: declamare la bellezza e la rarità dei testoni di Sicilia a chi non può permettersi nemmeno un’Italia al lavoro nuova è come voler vendere il Gronchirosa a un appassionato di annulli numerali o l’ultimo detersivo che più bianco non si può a un avvocato divorzista; lo capirebbe chiunque. E invece la stessa pubblicità filatelica risulta, con poche eccezioni, del tutto generica, della serie “Compro” oppure “Vendo” che viene da esclamare “E chi l’avrebbe mai detto da un commerciante?!”
Lo stesso si può dire a livello di associazionismo filatelico, notando lo spreco di energie che si ha in fatto di mostre e pubblicazioni: anche se l’intento di promuovere il collezionismo filatelico è lodevole, nella maggior parte dei casi non si stabilisce a priori chi sia il destinatario del libro o della manifestazione, ma si pensa solo a esporre tanto bel materiale, possibilmente raro e di vario genere, o a pubblicare qualche scritto ben scritto e illustrato, possibilmente di qualche noto filatelista. Un tentativo di catturare l’attenzione di quanta più gente possibile che poteva andar bene nei ruggenti anni Venti ma che oggi è superata dalla disponibilità di informazioni e immagini, anche specialistiche, offerta dal web. Catturare l’attenzione diventa ogni giorno più difficile, e per riuscirci occorre sapersi concentrare su poche cose, testi o immagini che risultino particolarmente seducenti e avvincenti.
Gli stessi cataloghi, che pure dovrebbero essere il mezzo principe per divulgare e coltivare la filatelia, sono semplici affastellamenti di cifre, con qualche rada e scarna informazione spesso in corpo 5 meno. Facendo pensare che sia ormai diventato solo un mezzo di coercizione e di potere, per imporre attraverso la sua numerazione ciò che si deve mettere nell’album per avere una collezione completa e commerciabile. Anche questo ho scritto in prefazione al Maillennial, ma senza dare adito a commenti. Forse a causa di quell’analfabetismo di ritorno ormai presente anche in filatelia, magari con la classica scusa di “non avere tempo”. Dimenticando che è bene informarsi non solo su “quanto vale”. In medio stat virtus pure in filatelia.